Cara “Settimana”,
guardo i giovani preti con speranza e, insieme con preoccupazione. Li osservo, e mi preoccupa il fatto che a volte mi fanno riandare ad un servizio del quotidiano “Le Monde” di qualche tempo fa, che definiva “nuovi ussari della chiesa” i giovani sacerdoti francesi. Ussari. Cavalleria scelta, ben addestrata per battaglie impossibili, duelli eroici, corpo militare aduso a fatiche non comuni. Mi chiedo se anche i giovani preti nostrani sono “nuovi ussari”. Non so dare una risposta definitiva, ma so di certo che dalle nostre parti (anche a causa “della rarefazione del numero dei preti”) si assiste alla partecipazione ed al coinvolgimento diretto di molti giovani “eroi della nuova evangelizzazione” alla gestione delle “cose ecclesiastiche”.
Non conosco bene i metodi e il criterio del loro “ingaggio”, ma so con certezza che vengono abbondantemente e generosamente schierati nei luoghi e nei posti chiave per lottare in favore della giusta causa: far conoscere a tutti il volto di Cristo.
Niente di male, anzi molto di bene. E tuttavia qualche interrogativo mi rimane per le perplessità che avverto se penso al substrato spirituale comune di queste nuove leve. Troppo spesso – mi pare – danno il fianco a pensare che abbiano una grande voglia di “distinguersi dal modello sociale” e dal profilo riconosciuto del prete. Anche il tratto personale ed i metodi pastorali suscitano perplessità: forme più “intense” del tratto sacerdotale, conclamata lealtà indefettibile, cura quasi ossessiva di tradizioni, pellegrinaggi, pratiche devozionali.
A volte mi dico: bella questa piega che riporta in vita un po’ di antico, se però non fosse unilaterale! Questi giovani confratelli nell’Ordine sacro sono persone che per certi aspetti invidio, ma alle quali con semplice fraternità vorrei dire di considerare che – magari senza volerlo – il loro atteggiamento potrebbe provocare contraccolpi deleteri sulle comunità, presbiterale e diocesana.
Tanti di questi giovani preti, infatti, si immedesimano a tal punto in “questo” ruolo da convincersi di essere sempre sul set di un film, alle dirette dipendenze di un regista, che, dopo averli abilmente selezionati, trova subito le parti giuste per far recitare a soggetto ogni protagonista. Il film ha una finalità ben chiara: offrire a tutti un’immagine di Chiesa giovane.
La gente gode nel vedere che tanti preti giovani – a differenza di molti presbiteri attempati – non hanno per nulla tirato i remi in barca, ma anzi remano con generosa dedizione, tanto che, durante la prova di collaudo, prima si corrode la vernice e poi finisce per scricchiolare anche il legno.
Errori di gioventù? E’ possibile. Ma scatta inesorabile la riflessione di dotti medici e si coglie qualche domanda seria di gente saggia: qual è lo spessore umano-affettivo-relazionale di questi soggetti? Da quali esperienze spirituali e comunitarie provengono? Dalla parrocchia, da un gruppo ben strutturato (Cfr. “Le armate del papa” di Gordon Urquhart, ed. Ponte alle Grazie)? Sono forse frutto di proselitismo vocazionale?
I giovani, si sa, vanno sostenuti per poter dare molti frutti. Allora arrivano puntuali le promozioni ufficiali: vicario, monsignore, direttore, parroco, cappellano… A volte però questi avanzamenti dei giovani possono diventare trabocchetti per anziani presbiteri. Servono a dare il “colpo di grazia” a delle persone già provate e forse stanche. Così la promozione di leve nuove diventa anticamera della successiva e definitiva emarginazione dei “vecchi”.
Poco vangelo e molta astuzia umana in questi casi se si verificano. Capita allora che gli stessi giovani, che non intendono subire per molto tempo mosse da gioco degli scacchi, iniziano con le rivendicazioni. Con esiti dubbi perché non si accorgono che essere spinti ad occupare posizioni di prestigio non era frutto di ciò che valevano ma della necessità del “giocatore”.
Essi non sanno di essere abilmente manovrati. Sono stati spinti ad aspirare a qualcosa di importante e ad occupare posti di prestigio per defenestrare senza alcun dolore altri confratelli. Si sono innocentemente prestati al gioco di prestigio perché non avevano gli anticorpi necessari per resistere alla seduzione. Sono appunto giovani, e non hanno l’esperienza di sopravvivere in climi clericali mantenendo saldo lo sguardo ai motivi profondi della loro vocazione sacerdotale.
Invitare alla disobbedienza di fronte a provvedimenti intrinsecamente ingiusti sarebbe un atto sovversivo per alcuni, per altri comporterebbe la ricerca e la riscoperta della propria coscienza… In entrambi i casi un’impresa ardua che rischia di tramutarsi in pura utopia!
A volte mi pare che siamo in “guerra”. Una guerra non dichiarata, ma nella quale anche i preti (!) per “sopravvivere” sono spinti a pensare e ad agire secondo l’antico adagio: “Mors tua, vita mea”. Un eccesso linguistico che nello stile del vangelo vuol fare riflettere.
Ho esposto queste mie perplessità, questi miei molti dubbi nel tentativo di comprendere quello che Cristo vuole da noi preti oggi, giovani o vecchi che siamo. Non è certamente mia intenzione quella di porre l’assedio alla cittadella fortificata. Il mio è un intento che si fa mormorio, grido soffocato “Signore, salvaci! Siamo perduti!”. E mi pare che Lui, con decisa tenerezza, mi risponda: “Perché avete paura, uomini di poca fede?” (Mt 8,25s).
Credo fermamente che vi siano molte risorse nel mondo dei preti giovani. Non voglio fare di “ogni erba un fascio”. Vi sono infatti dei preti giovani molto attenti ai segni dei tempi e in ascolto della Sapienza. Uno di questi un giorno mi lasciò un biglietto con queste parole proverbiali: “Non si affida un compito a chi non è affidabile. Ricordalo sempre, parroco!”.
Certo, cerco di ricordarmene. E spero che sia presente a tutti nella chiesa, a tutti i livelli.
don Ettore Sentimentale
Da “Settimana”, 3 novembre 2013, n° 39, p. 2.