È stato presentato al Gay center di Roma il report della ricerca "Pratiche positive", realizzata da Arcigay all’interno dell’omonimo progetto, finanziato con il contributo del fondo per l’associazionismo del Ministero del Lavoro. Il progetto indaga il rapporto tra il paziente Lgbt (lesbica, gay, bis ex e trans) e le istituzioni sociosanitarie con riferimento al doppio stigma, il primo relativo allo stato sierologico, il secondo all’identità di genere o all’orientamento sessuale. La letteratura scientifica ha infatti messo in luce un nesso tra discriminazione e stigma delle persone con HIV/AIDS e una serie di esiti negativi, tra cui il ritardo nel fare il test (late presenter), il nascondimento dello stato sierologico e maggiori difficoltà nell’accesso ai trattamenti. "La formazione scientifica del target sociosanitario – introduce il supervisore scientifico, dott. Gabriele Prati, docente di Psicologia sociale e del lavoro all’Università di Bologna – poteva far ipotizzare una minore incidenza dello stigma e della discriminazione: non è così".
L’osservazione della discriminazione avviene attraverso una ricerca che dosa l’approccio quantitativo e quello qualitativo e che osserva due campioni, offrendo perciò due diverse prospettive: quella dei pazienti (522 intervistati) e quella degli operatori sanitari (836 intervistati).
L’analisi del primo campione (persone HIV+, in maggioranza omosessuali maschi, provenienti da tutte le regioni italiane) porta alla luce un dato importante: due persone su tre riferiscono di essersi sentite trattate diversamente o ingiustamente a caso del proprio stato sierologico. Di conseguenza lo svelamento dello stato sierologico è altamente selettivo: il timore del giudizio e della discriminazione scoraggia a dirlo nel 60% dei casi perfino ai propri familiari. Tra i contesti in cui emergono maggiori discriminazioni si segnalano gli studi dentistici e il pronto soccorso. Una persona su tre non rivela il proprio stato sierologico al dentista e sono numerosi i racconti di servizi negati una volta noto la stato sierologico. Metà degli intervistati raccontano di non aver rivelato lo stato sierologico al proprio medico di base, altri si rivolgono a strutture molto lontane da casa. Altri ancora hanno addirittura rinunciato a richiedere trattamenti e cure.
Il campione degli operatori sociosanitari attinge da diverse strutture e da otto regioni (Abruzzo, Calabria, Emilia-Romagna, Marche, Puglia, Sicilia, Trentino Alto Adige, Veneto). Ne fanno parte medici, infermieri, ma anche assistenti sociali, psicologi, Oss. L’ottanta per cento di loro ha avuto esperienza lavorative con persone HIV+, il venti per cento ci lavora quotidianamente. Guardando le cifre, in generale gli operatori non manifestano forti atteggiamenti negativi nei confronti delle persone sieropositive, anche se tali atteggiamenti (incoerenti con le nozioni basilari sulla trasmissione del virus dell’HIV) sopravvivono tenacemente in una minoranza tutt’altro che trascurabile (10-15%). Perfino occupare il posto accanto a una persona HIV+ su un mezzo pubblico può essere problematico (più del 10% degli intervistati manifesta questo tipo di disagio oppure non esclude di provarlo). O ancora: l’8% sostiene che le "persone sieropositive valgono meno degli altri". Il 22% è convinto che le persone HIV+ abbiano commesso un errore per contrarre il virus: uno su cinque crede che quella persona sia meno "degna". Il 9% degli intervistati, inoltre, "preferirebbe non diventare amico di una persona sieropositiva", oltre il 12% manifesta disagio rispetto all’eventualità che una persona sieropositiva viva vicino alla sua abitazione. Oltre il 30% ritiene "rischioso" che una persona sieropositivo badi ai bambini di qualcun altro. E ancora: più del 10% degli operatori crede che "le persone sieropositive devono solo rimproverare se stesse" e oltre il 55% non vorrebbe bere nel bicchiere in cui ha appena bevuto una persona sieropositiva. Negli operatori c’è paura di contagio (1 operatore su tre lo dichiara). La grande maggioranza (oltre il 70% del campione) non si mostra in disaccordo rispetto all’eventualità di introduzione di pratiche di discriminazione istituzionale: otto persone su dieci ad esempio non sono contrarie all’imposizione dell’obbligo di dichiarazione del proprio stato sierologico al personale sociosanitario, a prescindere dal tipo di intervento richiesto. Un operatore su quattro non sarebbe contrario all’istituzione della facoltà di rifiuto di servizio di fronte a pazienti HIV+. Uno su cinque ha avuto modo di inviare un paziente ad altro collega perché sieropositivo, uno su dieci ha trasmesso informazioni sullo stato sierologico del paziente senza autorizzazione.
"La fotografia scattata è desolante – osserva il dottor Prati – nulla sembra essere cambiato rispetto agli anni Novanta. C’è un forte bisogno di formazione: le nozioni tecniche e scientifiche ci sono, ma le credenze e lo stigma pesano di più". Per monitorare le pratiche discriminatorie in ambito sociosanitario il progetto "Pratiche positive" ha diffuso un questionario di self report che aiuta a riconoscere – e di conseguenza a enunciare – gli atteggiamenti negativi.