LA GESTIONE DEL SISTEMA TRIBUTARIO – PROPOSTE MIGLIORATIVE

Il nostro sistema tributario è complesso,spesso farraginoso, sicuramente oppressivo.
La diagnosi, pur impietosa, ma obiettiva, nasce da cause endogene ed esogene al sistema stesso. Tanto per dire che la fiscalità è già complessa per sua natura, ci mette del suo anche il legislatore che spesso sembra adoperarsi per rendere ancor più complicato il sistema impositivo, il resto lo fanno i cittadini-contribuenti, e assai spesso pure i professionisti che li assistono. E’ da qui che bisogna partire sapendo che solo una macchina fiscale efficiente può contrastare efficacemente l’evasione e l’elusione delle tasse e garantire quindi un’equa distribuzione del carico tributario, come prescrive la Costituzione. Quando si apprende che vengono scoperte schiere di evasori totali, non servono menti da Paracelso per capire che le casse erariali non possono essere mantenute dai così detti ”soliti noti”, anche perché costoro non ne hanno più la capacità. E’ urgente quindi ogni possibile sforzo per acquisire all’Anagrafe Tributaria gli “sconosciuti”, senza per questo perdere di vista tutti quelli che trasformano in facoltà l’obbligo di pagare le tasse. Prima ancora è necessario però una profonda revisione della legislazione fiscale. Un tempo si procedeva alla redazione del Testo Unico solo quando una materia trattata in più leggi avesse raggiunto un definitivo assetto. Gli attuali Testi Unici servono a poco perché miriadi di leggi e leggine, per di più contenenti materie diverse, modificano, cancellano e aggiungono norme,ampliano o riducono termini, con il risultato che la legislazione fiscale appare un folta giungla nella quale i contribuenti onesti impazziscono e i furbi sguazzano a loro piacimento, avendo la possibilità di sottrarsi all’obbligo tributario, evadendolo o eludendolo. Uno Stato di diritto non può consegnare ai malintenzionati strumenti che rendono legale la illegalità. Completano poi il complicato quadro normativo le troppe leggi che concedono benefici fiscali. I sociologi ritengono che ogni fenomeno che distorce il corretto andamento della società civile è un fatto di cultura. Sottrarsi però all’obbligo di contribuire alla spesa pubblica,procurando ad altri il danno di subire un prelievo tributario iniquo, non è che sia mancanza di cultura, è la cultura dell’imbroglio! I sociologi non abitano nell’Empireo e ben sanno che l’evasione fiscale si è espansa a macchia d’olio tanto da diventare una piaga sociale. Ecco perché districare il ginepraio delle leggi tributarie è una priorità irrinunciabile,prendendo atto che il loro malizioso utilizzo finisce per essere il brodo di coltura dell’evasione. Ogni norma, giuridica o fiscale che sia, ha nell’astrattezza il suo requisito primario, ma il legislatore deve anche tener conto dell’impatto che una legge può avere in sede di applicazione concreta per evitare che i danni che possono derivarne siano superiori ai problemi che ci si proponeva di risolvere. In
sostanza – diciamolo a chiare lettere – la mano del legislatore deve essere neutra, cioè non vincolata all’interesse politico. Allo stato delle cose i contribuenti, almeno quelli educati alla fedeltà fiscale, sono oppressi dalla crisi economica e da un sistema fiscale tanto complicato che anche un modesto operatore economico,che sappia leggere e far di conto, non è in grado da solo di badare alle proprie incombenze fiscali. Al fianco della vasta platea di contribuenti c’è la classe professionale che presta la propria assistenza. Nasce male il rapporto tra il contribuente e il fiscalista perché tra gli operatori economici è largamente diffuso il convincimento che la qualità professionale del consulente si misura nella sua abilità di non far pagare le tasse, neppure quelle dovute. Tutelare la professionalità è un dovere deontologico, ma accade pure che taluni professionisti non vi adempiano e magari per non perdere il cliente ricorrono ad artifizi contabili, talora anche rozzi, considerando che in definitiva a risponderne è sempre il contribuente, e non il fiscalista, responsabile solo di violazioni di norme di carattere fiscale, come prevede il D.Lgs. 18.12.1997 n.472. Questo malvezzo non aiuta a migliorare il già complicato rapporto fisco/contribuente che nasce nel sospetto e finisce in un contenzioso infinito che nuoce ad entrambi, l’uno che non incamera gettito nei tempi dovuti,essendone incerto l’an e il quantum, l’altro che si affida al tempo quanto meno per ritardare l’esborso. Il problema esiste tant’è che se ne è occupata la Corte di Cassazione con la sentenza n.99616 del 26 4.2010 con cui ha introdotto il concetto aggravato di ”diligenza media” collegandolo al Codice deontologico dell’Albo dei Commercialisti, e ha esteso la responsabilità professionale al di fuori delle violazioni meramente formali. La Cassazione ha fissato un principio in punto di diritto, ma è evidente che è lungo e non facile il percorso che porta alla formazione di una giurisprudenza consolidata. Se però vi fosse la buona volontà di risolvere subito il problema,ben può intervenire il legislatore introducendo l’obbligo per il commercialista di sottoscrivere le dichiarazioni fiscali assieme al contribuente di guisa che entrambi siano chiamati a rispondere in solido di un atto di scienza quale è la dichiarazione fiscale. Se ne ricaverebbero effetti benefici diffusi, la tutela dell’Erario, del cittadino-contribuente e dello stesso Ordine Professionale nel senso che diventerebbe rischiosa l’attività di taluni sedicenti improvvisatori adusi a fare strame delle regole deontologiche, come raccontano le cronache quotidiane di fatti che accadono nella galassia di tutte le professioni. Se è vero quindi che vi è la ferma volontà di contrastare efficacemente l’evasione fiscale, che è un grave delitto contro la collettività, è pur necessario apprestare strumenti idonei e incisivi. Non si può dire che l’A.F. non lo abbia fatto. Si cominciò con i controlli globali a sorteggio introdotti con la legge 354/1974, poi fu istituito il Servizio Centrale degli ispettori tributari (S.E.C.I.T.) con la legge 146/1980 (Legge Finanziaria 1980), poi ancora la legge 516/1982, così detta “manette agli evasori”, che se avesse portato nelle casse erariali soldi in ragione anche della metà delle carte che inondarono gli uffici giudiziari,sarebbe stato un successo senza precedenti. Purtroppo le misure fin qui adottate si sono rivelate insufficienti, non hanno fatto da deterrente, e non hanno sortito neppure il benché minimo effetto educativo. Ora l’A.F. si appassiona al redditometro e si dice convinta che trattasi di strumento efficace per contrastare l’evasione fiscale. Se ne scrive e se ne dibatte a lungo, se ne è occupato anche il Garante della privacy, ma permangono ancora dubbi e incertezze per cui non c’è che da attendere i futuri sviluppi. Deve essere però ben chiaro che l’evasione fiscale si associa ad altri fenomeni non meno gravi che infestano il tessuto sociale. C’è la corruzione generalizzata a ogni livello e c’è poi la criminalità organizzata che possiede l’anagrafe patrimoniale dei propri “contribuenti”, conosce il giro di affari e la liquidità dei singoli, provvede a tassarli, e manda per la riscossione alle scadenze stabilite,pretendendo silenzio e puntualità. Come dire che l’antiStato corre in una fuoriserie e lo Stato annaspa su un vecchio catorcio. Ben si capisce allora che serve un’azione pluridirezionale che abbia però come punto centrale la presenza massiccia e continua sul territorio, nel presupposto imprescindibile che gli accertamenti costruiti ex cathedra non valgono le rilevazioni aziendali. Quando nel 1973 fu introdotta nel nostro sistema tributario l’imposta sul valore aggiunto, si aprì un contenzioso tra l’allora Direzione Generale delle Tasse e la consorella delle Imposte Dirette,quale delle due dovesse assumere la gestione del nuovo tributo. La spuntò la Direzione delle Tasse, ma fu un macroscopico errore perché amministrare il tributo iva richiede una solida preparazione tecnico-contabile ed invece il Personale delle ex Imposte Indirette è di formazione culturale umanistica. Basti ricordare che per oltre un lustro gli Uffici Iva si limitarono a ricevere le dichiarazioni di imposta e a riporle in luoghi enfaticamente chiamati archivi. Nel frattempo l’italica gente, che non certo manca di perspicacia, capì che una volta assimilato il meccanismo dell’iva, ciascun’operatore economico poteva aprire la propria banca privata. Per l’Erario fu un disastro biblico. Ora però che con la istituzione delle Agenzie Fiscali imposte dirette e imposte Indirette vivono sotto lo stesso tetto non è più possibile che l’iva si muova su un percorso diverso da quello delle imposte reddituali. Stroncare l’evasione ai fini dell’iva, che a detta della GG.FF. è imponente, significa conseguire risultati sostanziosi perché scoprire la verità sui movimenti iva impedisce di mentire sul reddito. Bisogna però convincersi che dalla cattedra si impartiscono le lezioni, non si scopre l’evasione,considerato che l’addizione e la sottrazione di numeri situati sono calcoli elementari. Va bene anche il redditometro se applicato però come conseguenza di approfondite e analitiche rilevazioni contabili e non certo come soluzione unica,ciò in quanto essendone il presupposto le presunzioni aventi i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, è anche superfluo ricordare che a tanto si perviene solo attraverso l’analisi al microscopio dei dati contabili che porta a inficiare le scritture contabili e a dichiararle inattendibili. Concludendo, si può fare, se si vuole, a patto però che il legislatore fiscale metta in campo non la politica, ma incisive politiche di organizzazione e metodo che riguardino anche il Personale dell’A.F. Di fronte c’è un nemico agguerrito e per nutrire aspettativa di vittoria è determinante la scelta delle armi e soprattutto il saperle usare.

LA SEGRETERIA GENERALE