Mt 27,39-50
Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: "Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!". Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui dicevano: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Haconfidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: "Sono Figlio di Dio"!". Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso modo.
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio.
Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "Elì, Elì, lemàsabactàni ?", che significa: " Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?".
Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Costui chiama Elia".
E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: "Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!". Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.
di Ettore Sentimentale
Il brano trascritto è l’ultima parte del lungo racconto della passione del Signore (Mt 26,14-27,66) e funge da preludio alla settimana santa. Anche in questo caso metterò in risalto solo alcuni punti rimandando alla lettura intera del brano per una migliore comprensione.
La prima cosa da sottolineare è il contesto di scherno nel quale avviene la morte del Signore e al quale il Maestro oppone un profondo silenzio. Questo stride – e non poco – con le nostre vedute: un Dio che rispetta e ha compassione di quelli che lo disprezzano è incomprensibile alla logica umana.
Ma c’è di più. Il Figlio squarcia il silenzio rivolgendosi al Padre attraverso un urlo straziante: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. È l’invocazione con la quale Gesù chiede di non essere abbandonato in quel momento di estrema sofferenza. Sorprendentemente, il Padre non dà alcuna risposta.
Perché Dio rimane in silenzio davanti alla morte di Gesù? Fra le tante risposte, propongo quella che fa balenare il Suo desiderio di aiutarci a entrare nel mistero e che – perfino in questa occasione –lo fa emergere non come un essere potente e vincente, o addirittura estraneo alla sofferenza dell’uomo, ma come un Dio indifeso e schiacciato che soffre con l’uomo la desolazione e le tenebre della morte.
In questa domenica in cui siamo invitati a contemplare il Crocifisso, dovremmo rivolgerci a Lui ringraziandolo di non aver lasciato la croce, di non aver abbandonato l’uomo nella solitudine della propria sofferenza.
Tutti coloro che hanno sperato in Lui (torturati, donne umiliate e violentate, malati cronici e moribondi, vittime di guerre, di carestie e miserie, di terrorismi) non sono rimasti delusi, anzi tutti costoro sono “beati” perché nelle loro sofferenze sentono che Gesù è crocifisso con loro.
Quest’ultima affermazione affonda le radici nell’atteggiamento della prima comunità di credenti che aveva ben chiaro come il Padre non fosse stato insensibile o crudele lasciando morire il Figlio sulla croce. Scrive S. Paolo: “Sì, è stato Dio a riconciliare a sé il mondo mediante Cristo” (2 Cor 5,19). È come se dicesse che Padre e Figlio, seppur in modo diverso, soffrono entrambi: Cristo patisce la morte nella sua carne, il Padre soffre per la morte del Figlio nel suo cuore di Padre. Questo duplice “dolore” apre un orizzonte insperato: se Dio stesso soffre in Gesù, allora il Figlio procura la comunione con Dio per quelli che si vedono umiliati e crocifissi come lui. La sua croce, portata nelle nostre croci, è il segno che Dio soffre in ogni patimento umano: a Dio fanno male i drammi, gli abusi e le ingiustizie che gli uomini patiscono.
Il Crocifisso, “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,23) è la nostra speranza. Non conosciamo il motivo per cui Dio consenta il male, ma sappiamo che Dio soffre con noi e in lui la croce sfocia nella risurrezione, la sofferenza nella felicità eterna.