Sarà un primo maggio davvero amaro quello che si apprestano a vivere più di tre milioni di dipendenti dei comparti pubblici: al cronico blocco degli stipendi e del turn over, quest’anno si somma un’altissima percentuale di dipendenti precari e una drastica riduzione delle domande di pensionamento a causa dell’innalzamento dei requisiti anagrafici e di servizio previsti dalla riforma Fornero. Il ‘contentino’ degli 80 euro, poco più di una pizza, non cambia la sostanza: anche se il sindacato non può certo disdegnare l’aumento in busta paga, peraltro assicurato solo fino a dicembre 2014 e non in pianta stabile, va ricordato che sarà riservato ad una parte dei dipendenti. E per finanziarlo si andranno a ridurre del 15% gli emolumenti dei dirigenti, facendo ancora una volta pagare allo stesso comparto statale un incremento stipendio che invece andrebbe finanziato per intero con risorse statali nuove.
Quanto indicato in questi giorni dall’ultimo Rapporto semestrale dell’Aran sulle retribuzione dei pubblici dipendenti, a proposito degli indici mensili delle retribuzioni contrattuali, vale molto più di tanti commenti: mentre “il settore privato mostra variazioni positive”, seppure contenute, “i comparti di contrattazione collettiva Aran (dirigenti e non) e gli altri comparti pubblici, in coerenza con le disposizioni normative che dispongono il blocco della contrattazione nazionale per i pubblici dipendenti, continuano a riportare variazioni nulle”.
“La variazione cumulata per il periodo 2007-2013 – scrive sempre l’Aran – registra una crescita delle retribuzioni contrattuali per l’intera economia pari al 16,4%: i settori che presentano valori sopra la media sono il settore privato (18,4%) – ed in particolare l’industria (+20,9%) e i servizi privati (+16,5%) – e i dirigenti non contrattualizzati della PA (+16,6%). Incrementi inferiori alla media si trovano per tutti gli altri comparti della pubblica amministrazione con valori che variano fra il più elevato (+11,7%) dei dirigenti contrattualizzati PA e il più basso (+10,3%) del personale non dirigente degli altri comparti pubblici”. Basti pensare che l’inflazione nello stesso periodo è salito del 12% mentre il personale della scuola ha avuto aumento per l’8%.
“La curva delle retribuzioni contrattuali dei dipendenti dei comparti di contrattazione collettiva Aran è ormai bloccata sul valore di luglio 2010 e, da aprile 2011, è al di sotto della curva dell’indice nazionale dei prezzi al consumo. L’andamento delle retribuzioni dei dipendenti pubblici non contrattualizzati (comparti forze armate, dell’ordine e vigili del fuoco) è anch’esso fermo sul valore del marzo 2011. Le retribuzioni del settore privato – conclude l’Aran – sono invece in crescita, lenta ma costante, per effetto dell’applicazione dei contratti rinnovati nel corso del 2013”.
La ‘corona’ dei dipendi pubblici con stipendi ridotti alla fame spetta agli insegnanti e del personale scolastico a cui lo Stato ha bloccato il rinnovo contrattuale nel 2009 con la legge Tremonti (122/2010), con un anno di anticipo rispetto agli altri lavoratori statali, a cui si è aggiunta la proroga approvata dal Governo Letta (DPR 122/2013). E per tutti i lavoratori statali la prospettiva è rimanere con le buste paga per altri 3 anni. Il dato si evince dal Documento di Economia e Finanza 2014 approvato a metà aprile dal CdM: “Nel quadro a legislazione vigente – si legge nel DEF – la spesa per redditi da lavoro dipendente delle Amministrazioni Pubbliche è stimata diminuire dello 0,7 per cento circa per il 2014, per poi stabilizzarsi nel triennio successivo e crescere dello 0,3 per cento nel 2018, per effetto dell’attribuzione dell’indennità di vacanza contrattuale riferita al triennio contrattuale 2018-2020”.
Se si somma la proroga agli altri quattro anni di stop di aumenti si arriva sette anni consecutivi di blocco stipendiale. Nella scuola sono addirittura otto gli anni di fermo, un record: considerando che tra il 2006 e il 2012 l’inflazione è salita del 12% rispetto agli aumenti contrattuali fermi nella scuola all’8%, docenti e personale Ata a oggi hanno perso quasi 16 mila euro lordi di mancati aumenti a dipendente. In generale, considerando tutti i pubblici dipendenti, lo stipendio base è sempre più in sofferenza rispetto all’aumento del costo della vita, in ritardo anche ai livelli degli altri Paesi economicamente sviluppati ed in alcuni comparti è persino regredito in termini di potere d’acquisto.
Ma i problemi non si fermano agli stipendi inadeguati. C’è anche quello del mancato turn over, con oltre 300mila precari costretti a rimanere ai “box” chissà ancora per quanto tempo. Lo stesso Collegato al lavoro, in discussione in Parlamento, non risolve i problemi dei contratti a termine perché non autorizza la stabilizzazione dei dipendenti pubblici e non prevede una sanzione pesante verso le pubbliche amministrazioni che reiterano i contratti a termine dopo i 36 mesi di servizio. Non è un caso che nei prossimi mesi si esprimerà la stessa Corte di Giustizia Europea sulla stabilizzazione dei precari della scuola, da anni chiamati a supplire. Ma la situazione è aggravata anche dalla “stretta” Fornero-Monti. Basta dire che da quest’anno per accedere alla pensione di vecchiaia serviranno 63 anni e 9 mesi di età; per quella anticipata, un’anzianità contributiva di 41 anni e 6 mesi (per gli uomini un anno in più). E negli anni a venire i requisiti si alzeranno ancora: quando la riforma Fornero entrerà a regime, i lavoratori del pubblico impiego potranno lasciare il lavoro a quasi 68 anni.
Anche su questo fronte quanto accade nella scuola è indicativo: dal 2001 ad oggi lo Stato italiano ha assunto nelle 258.206 insegnanti. Mentre nello stesso periodo quelli che hanno lasciato il servizio per la pensione sono stati molti di più: 295.200. Le assunzioni non sono bastate nemmeno a coprire tutti quei posti liberi, ben 311.364, che sempre a partire dal 2001 sono stati dichiarati dal Miur ufficialmente vacanti. È un dato che fa ancora più male se si pensa che nella scuola vi sono oltre 140mila precari annuali, quasi la metà di tutta la pubblica amministrazione: per loro l’ultima speranza rimane il ricorso alla Corte di Giustizia europea, che entro l’anno si dovrà esprime in modo definitivo.
“Non dobbiamo lamentarci – sostiene Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – se gli italiani sono gli insegnanti tra i più vecchi al mondo, con un numero crescente di ultra sessantenni e l’età media delle immissioni in ruolo alle soglie dei 40 anni di età. Il risultato di questo processo è l’età media di un insegnante italiano, ormai ben oltre i 50 anni. Dimenticando che l’insegnamento è tra le categorie professionali più a rischio burnout, in Italia ci ritroviamo con due docenti su tre che hanno superato questa età. Mentre i nostri insegnanti under 30 sono presenti per appena lo 0,5%, a fronte del 6,8% della Spagna. Il problema è che chi opera per la PA è trattato sempre più da lavoratore di serie B”.
Per non parlare della trattenuta del 2,5% sul TFR che nel comparto privato è totalmente a carico del datore di lavoro mentre per rimane per i neo-assunti nel pubblico impiego dal 2000.