Fa bene il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, a dire che è giunto il momento di ridurre a due anni il percorso della scuola dell’infanzia, far iniziare la scuola primaria a 5 anni, lasciare intatta la durata della secondaria (3 anni il primo grado e 5 il secondo) consentendo in tal modo il diploma a 18 anni anziché a 19: la proposta è la stessa presentata dall’Anief e sarebbe perfetta se il ministro nel contempo riuscisse anche ad elevare da 16 a 18 anni l’attuale obbligo formativo.
"È vero – dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – che in passato altri ministri dell’Istruzione hanno fallito tentando di imporre un progetto simile. Ma i tempi sono cambiati, ormai viviamo nell’era della globalizzazione e del web. Che impongono tempi e apprendimenti anticipati. Inoltre, anche i più recenti studi di psicologia e pedagogia hanno rilevato che la massima capacità dello sviluppo umano si attua attorno a 3 anni e mezzo di vita. Che senso ha rimanere ancorati a certi conservatorismi? Chi sostiene il contrario, come gli altri sindacati, farebbe bene ad adeguarsi ai tempi".
A tal proposito, Anief il mese scorso ha presentato una proposta in Senato in linea con quella espressa oggi dal Ministro nel corso dell’audizione chiesta alla VII Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in merito all’esame del ddl n. 1260, relatore alla Commissione sen. Francesca Puglisi (PD), recante ‘Disposizioni in materia di sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino ai sei anni e del diritto delle bambine e dei bambini alle pari opportunità di apprendimento’.
Nell’occasione, il sindacato ha ricordato l’alto tasso di abbandoni precoci degli studi, dell’innalzamento della disoccupazione giovanile e dei Neet parlano chiaro. E anche gli ultimissimi numeri sui giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano: un “esercito” che si allarga di mese in mese, con oltre 2 milioni 250 mila giovani (il 24%).
La loro entità, ci dice l’Istat, dal 2008 è aumentata “del 21,1% (+391mila giovani)”. È un andamento di cui occorre preoccuparsi. L’incremento annuo già molto sostenuto nel 2009 e nel 2010, ha fatto registrare un consistente aumento nel 2012. Solo Grecia e Bulgaria presentano incidenze maggiori (27,1 e 24,7%) di Neet. In Italia la quota è infatti molto superiore a quella media dell’Ue a 27 e il fenomeno è più spiccato al Sud: l’incidenza dei giovani che non studiano e non lavorano raggiunge il livello più alto, il 33,3% (contro il 17,6% nel Centro-Nord), ponendo in luce le criticità di accesso all’occupazione per un gran numero di giovani residenti nel meridione. Sicilia e Campania detengono le quote più elevate, con valori rispettivamente pari al 37,7 e 35,4%, seguite da Calabria e Puglia, con livelli pari al 33,8 e al 31,2%.
Obbligando i nostri giovani a frequentare la scuola fino alla maggiore età, quindi, si sposterebbe più avanti questo momento di “crisi”. Quando però la maggior parte dei nostri giovani avrà almeno in tasca il diploma di maturità. Mentre oggi (dati Censis) il 26% degli studenti iscritti negli istituti superiori statali al termine dei cinque anni non arriva a conseguire il titolo. Con le scuole del Sud che, ancora una volta, si ergono a leader negative: nella provincia di Napoli, ad esempio, negli istituti tecnici la percentuali di studenti che risultano dispersi nel quinquennio supera il 45%.