di ANDREA FILLORAMO
Non intendo entrare nel merito del trasferimento di don Salvatore Sinitò dall’arcipretura di Taormina ad altra sede ma solo soffermarmi sul fatto che qualche giornale, commentando questa decisione dell’arcivescovo, ha scritto che “don Sinitò ha obbedito, dato che non gli restava altro da fare, in quanto era costretto dal voto di ubbidienza, fatto il giorno della sua ordinazione”. Non è così. Don Sinitò è un prete secolare e non un religioso e non era vincolato da alcun voto ma da una promessa. Occorre tener conto che la promessa dell’ubbidienza che il prete ordinando fa al vescovo ripete (e i cultori di storia lo sanno) il vecchio rito dell’affidamento del beneficio feudale da parte del signore; si tratta più propriamente del cosiddetto “omaggio”. E’, quindi, da questo “ istituto” feudale, prima di ogni altra cosa, che la promessa dell’ubbidienza del prete fatta al vescovo eredita il senso e il significato. In sintesi: Il mondo medievale era pieno di pericoli e lo Stato non garantiva nessuna protezione. Ciò spingeva molti uomini liberi a trovare protezione presso qualcuno più potente di loro. Il debole si raccomandava al forte che diventava il suo signore, e a lui giurava fedeltà e obbedienza. Per contare su uomini armati da usare in caso di guerre, re e imperatori si circondarono di cavalieri valorosi legati da un giuramento. Il premio consisteva in un territorio da governare, chiamato prima “beneficio”; poi, dopo l’anno Mille, “feudo”. Il feudo veniva assegnato nel corso di una solenne cerimonia chiamata investitura. La cerimonia aveva inizio con un giuramento di fedeltà e ubbidienza. Il cavaliere, chiamato vassallo, giurava con le mani in quelle del suo signore mettendosi in ginocchio di fronte a lui. In questo modo gli rendeva omaggio, lo riconosceva cioè suo superiore. Dopo il giuramento, il signore investiva, cioè assegnava il feudo al vassallo che diventava così feudatario. Il feudatario poteva dividere un feudo troppo grande in parti più piccole ai valvassori; questi ultimi ai valvassini. Se il vassallo fosse venuto meno al giuramento si sarebbe macchiato di una colpa grave, la fellonia, e diventava un fellone, un vassallo traditore. Non è difficile fare un parallelismo fra l’«omaggio» feudale e il rito dell’ordinazione sacerdotale in cui il novello prete giura di prestare obbedienza al vescovo. La subordinazione del prete al vescovo, quindi, ha radici profonde da rintracciare nel periodo feudale: l’ubbidienza e la subordinazione sono totali come quelle del vassallo nei confronti del feudatario. L’obbedienza richiesta, quindi, è un’ubbidienza che non guarda in faccia al comando, per investigare i motivi che l’hanno determinato, ma semplicemente lo accoglie e lo esegue. Fatta questa lunga premessa chiariamo il concetto di ubbidienza. In realtà è molto facile parlare di ubbidienza ma è difficile dimostrare che si tratta di una virtù e questo lo dicono i vari esperimenti di psicologia sociale, i quali hanno dimostrato che l’essenza dell’ubbidienza consiste nel fatto che una persona giunge a vedere se stessa come strumento utile per portare avanti i desideri di un altro individuo e quindi non si consideri più responsabile. Nelle persone condizionate, infatti, una delle caratteristiche presenti maggiormente, è la deresponsabilizzazione del proprio comportamento a favore dell’obbedienza incondizionata e fideistica al leader del gruppo, al quale si attribuiscono poteri divini o pretese legittime per la salvezza dell’umanità. Infine il controllo della persona diviene totale. La vittima diventa così confusa da perdere completamente il controllo di se stessa e della situazione…Volendo andare nei particolari: è l’ubbidienza assoluta al vescovo, come richiesta al novello sacerdote, il veleno che può nuocere all’istituzione, che le impedisce di essere tale. Bisogna obbedire al vescovo, questa la regola, dargli sempre ragione o meglio non azzardarsi mai a criticarlo esplicitamente e con una certa continuità. Intendiamoci: anche nella Chiesa e, particolarmente in essa, l’ubbidienza è necessaria ma, in dosi appena eccessive, essa diventa micidiale: abitua chi comanda a credersi infallibile, e chi obbedisce a non avere idee, a ridursi a un ruolo totalmente passivo, oppure induce a cieche e tacite ribellioni senza futuro. Ma c’è una cosa ancor più grave: quando vige il principio dell’ubbidienza, quel che ne risulta è inevitabilmente una selezione alla rovescia. I primi posti e le maggiori prebende vengono assegnati a coloro che si mostrano più ubbidienti e cioè, in genere, ai più deboli, ai più conformisti e, quindi, prevalgono – e nella Chiesa i preti lo sanno – i più incapaci. Queste considerazioni sicuramente erano anche di don Milani quando scriveva: “C’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’ubbidienza cieca”.