Poco più di un mese fa ci siamo lasciati con l’impegno di concludere il discorso iniziato nelle due precedenti interviste che vertevano sulla figura del prete. Alla fine dell’ultima intervista p. Ettore Sentimentale aveva sfiorato il tema inerente l’elezione del vescovo, argomento che affrontiamo in questa chiacchierata.
Chi elegge il vescovo e con quali criteri?
Oggi il percorso è alquanto “clericalizzato”, cioè dipende da chi presenta il futuro candidato vescovo e dagli uffici preposti della S. Sede che portano avanti le indagini in modo molto riservato. Solitamente il vescovo diocesano presenta una terna di nomi di preti sulla quale poi, dopo un profondo discernimento da parte degli organi incaricati a ciò, viene scelto – avvalendosi di criteri ben precisi e di informazioni assunte da persone degne di fiducia – il futuro candidato. Quando il quadro “probatorio” è a posto, viene data notizia ufficiale e dopo qualche tempo avviene l’ordinazione. La consuetudine ecclesiale però è stata stravolta: la prassi comune dei primi secoli del cristianesimo vedeva fortemente impegnata nella scelta del vescovo la comunità ecclesiale e al suo interno soprattutto i laici.
Vuoi dire – come hai sostenuto anche per i preti e soprattutto per il parroco – che era (e dovrebbe essere) la base a eleggere i vescovi?
Sì, proprio questo. In effetti l’insegnamento dei padri dei primi secoli su questo è stato svilito e totalmente capovolto. Se hai la pazienza di seguirmi, per spiegarti meglio questo punto voglio raccontarti un aneddoto.
Sì, fai pure…
Come vedi ho fra le mani una fotocopia di “Le Nouvel Observateur” del luglio 1969 dove è riportata la cronaca dell’ordinazione episcopale di Jean Daniélou (19-4-1969), avvenuta nella Cappella dei Carmelitani dell’Institut Catholique di Parigi. Il p. Daniélou è stato uno dei più grandi teologi a cavallo del Concilio Vat. II. Era stato eletto appena otto giorni prima “vescovo titolare di Taormina”. Come ben sai, Taormina è sede titolare vescovile. Ebbene, quella celebrazione fu gravemente turbata da ben sette gruppi “contestatari”.
Mi vuoi dire che queste teste calde interruppero la messa?
Non proprio così, ma ci fu di più. Il corteo dei vescovi aveva preso posto nel coro, Mons. Marty (arcivescovo ordinante) aveva appena concluso la preghiera colletta, quando una moltitudine di volantini di ogni colore cominciò a cadere dalla volta sui concelebranti e sul futuro vescovo. La polizia che sorvegliava la cappella è intervenuta. I monsignori, scandalizzati e imbarazzati, hanno minimizzato l’incidente. Ma il dado era stato tratto. Il povero ordinando è stato “interpellato” e attraverso lui l’insieme dell’episcopato e quella parte di Chiesa che rifiutava il confronto con questi “contestatari”. Quello che poteva sembrare un intempestivo e clamoroso gesto goliardico, in effetti si portava dietro una nuova presa di posizione dei cristiani di fronte alla Chiesa, di cui tanti iniziarono a preconizzarne la morte. La rivista, di cui dicevo, colloca la disavventura dell’ordinazione di Jean Daniélou all’interno di un dossier iniziato nel numero precedente che ha per titolo “La morte della Chiesa” e – nel caso specifico – l’inchiesta di Yvon Le Vaillant inquadra l’increscioso fatto in un articolo dal titolo alquanto perentorio: “Duemila anni, basta così…”.
Non resisto dalla curiosità di conoscere il contenuto del volantino…
Prima di trascriverne il testo, devo spezzare una lancia in favore dei “contestatari”. Non certo per il modo, quanto per la materia. Parecchi di quei giovani erano stati alunni del vescovo eletto e a lezione avevano appreso il contenuto che poi hanno trascritto, anche se in modo alquanto “duro”. Quelli erano gli anni della contestazione. E forse non molti sanno che i primi focolai del nuovo corso (“la fantasia al potere”) hanno avuto inizio all’interno della Chiesa. Ecco il testo del volantino che trascrivo fedelmente (in una libera traduzione italiana fatta da persone competenti).
“Cristiani, noi siamo nessuno senza il vescovo… / Vescovo, tu sei nessuno senza il tuo popolo! JEAN DANIELOU/ Di CHI tu sei vescovo?/ Per CHI tu sei vescovo?/ CHI ti ha scelto? / QUALE POPOLO TI HA ELETTO? Chi ti protegge e chi sono i tuoi invitati? / La tua ordinazione oggi garantisce / una Chiesa di classe che rifiutiamo / Non vi riconosciamo la Chiesa di Gesù Cristo”.
Pazzesco! Una bomba! Ma non ti sembra che hanno esagerato?
Nei modi sì, nella sostanza no, perché hanno messo per iscritto quello che la Tradizione e il Concilio avevano maturato. Purtroppo, né l’insegnamento dei padri, né le indicazioni conciliari sono stati veramente assimilati. Di tutto il patrimonio patristico, la maggior parte dei preti e alcuni laici “clericalizzati” conosce a memoria solo la citazione di S. Ignazio di Antiochia: “Nihil sine episcopo” (“Nulla senza il vescovo”). Una frase che tolta dal suo contesto serve solo a difendere strenuamente la sottomissione al vescovo. La cosa più grave, per i “chierici”, sta nel fatto che sono cresciuti con questo ritornello in testa – un piccolo lavaggio di cervello – del quale diventa impossibile liberarsi. Fortunatamente vi sono altre fonti patristiche che arricchiscono l’orizzonte comprensivo. Un testimone importante in tale direzione è S. Cipriano di Cartagine, (abbiamo celebrato la sua memoria una settimana addietro). Basta cliccare su qualsiasi motore di ricerca per leggere il suo notevole contributo in questo campo. Riporto qualche passo: “Mi sono dato la regola, fin dall’inizio del mio episcopato, di non decidere nulla secondo la mia opinione personale, senza il vostro parere (presbiteri e diaconi) e senza il consenso del popolo”. E lo stesso – addirittura – aggiunge un’altra espressione che oggi è pressoché incomprensibile: “Non si imponga al popolo alcun vescovo non voluto”.
Chiarisci un po’ queste frasi, per favore…
Subito. Qui troviamo un fondamento assoluto di quella che poi si chiamerà “sinodalità ecclesiale”. Mi rifaccio al libro del p. Congar (“Per una Chiesa serva e povera”) già citato precedentemente. Una volta era il popolo (e specialmente i laici) che interveniva nell’elezione dei vescovi e nella designazione dei ministri. Era normale che gli eletti dovessero rispondere al proprio “elettorato”, il quale, solitamente, aveva un certo peso anche nei concili.
Ma questa prassi comportava il rischio oggettivo per il vescovo eletto di essere ostaggio del proprio elettorato e quindi di essere strumentalizzato o di strumentalizzare il popolo.
Questo non lo escludo a priori. È vero che con l’elezione il vescovo diveniva “sposo” della chiesa locale (sposa): questo legame “sponsale” restava per sempre. Su questa base poi S. Benedetto scriverà nella sua regola che l’abate (eletto democraticamente dalla comunità dei monaci) resta tale a vita. Oggi si assiste a un teatrino che sa di patetico melodramma… I vescovi cambiano “sposa” in continuazione, un po’ come i calciatori che cambiano casacca in base alla campagna acquisti del mercato. Compreso quello di riparazione. Simile discorso per i parroci che – almeno sulla carta – dovrebbero rimanere in carica nove anni. Voglio però approfondire questo punto che mi sembra vitale. Il fatto che il responsabile della comunità (vescovo/abate) restasse in carica per sempre, non è da considerarsi come una imposizione di “monarchia assoluta”, cosa che poteva anche capitare (qualche abate per esempio ha finito i suoi giorni nel pozzo dell’orto del monastero!). Gli elettori erano ben consapevoli della loro responsabilità e sceglievano in coscienza la persona che presentava – in assoluto – le caratteristiche richieste dal ruolo che andava a ricoprire. Come vedi, paradossalmente, gli antichi erano scevri da interessi particolari. I “gruppetti di potere”, dettati dai capricci di pochi, erano ridotti quasi al nulla.
Ritorna sulla frase di S. Cipriano, per favore…
Sì, lo faccio con piacere. Scusa il grande inciso. Nella citazione riportata mi sembra di cogliere una sfumatura importantissima, oggi ormai “fuori legge” nella prassi ecclesiale. Il vescovo di Cartagine parla di “parere” del clero e di “consenso” del popolo… Fra i sostantivi virgolettati vi è una certa differenza, ma il più vincolante e pesante ai fini della decisione sembra essere il secondo. Oggi purtroppo quando si chiamano i laici a partecipare attivamente alla responsabilità ecclesiale, tanti preti (e forse anche i vescovi) fanno capire loro che si tratta di una benevola concessione, invece di invitarli a cogliere che l’impegno ecclesiale è un loro diritto.
Forse anche per questo, qualche settimana addietro, su Facebook (testimoni digitali) un tale Nico manifestava un certo disappunto per la mancanza dei laici alla programmazione pastorale della chiesa locale. Tu che ne pensi?
Mi fa piacere che i laici siano attenti a quanto accade nella chiesa locale. Per il resto: no comment.
Cioè?
“È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore”, dice il Libro delle Lamentazioni.
Se le cose stavano (e dovrebbero stare) così, allora siamo molto lontani dal legame vero e profondo fra il vescovo e la comunità.
Sì. In effetti quella che doveva essere la base (il legame di cui parli) sulla quale costruire un rapporto di reciprocità dialettica fra comunità e pastore, è stata concretamente disattesa. E dire che il Concilio Vat. II abbonda di riferimenti patristici in tal senso. Per la maggior parte, però, rimasti solo sulla carta. Qualcuno certo obietterà che ormai è impossibile tornare indietro. E questo è vero, così come lo è che nei documenti ufficiali (vedi la traccia proposta per il prossimo convegno ecclesiale nazionale che si terrà a Firenze nel novembre del prossimo anno, dal titolo “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”) una parte fondamentale è costituita ancora dal confronto con il contributo dei Padri della Chiesa. Perché allora questa schizofrenia? Storicamente la figura del vescovo ha perso la sua dimensione mistica e si è sempre più rivestita di giuridismo. Il p. Congar dedica numerosissime pagine, ben documentate, a questo cambio di prospettiva.
Che tipo di vescovo vorresti?
Vorrei tratteggiarne un profilo “ideale” rifacendomi anche a quanto detto in precedenza. Prima di tutto che sia scelto dal suo popolo per il suo amore e la sua fede. Questi elementi a mio giudizio sono irrinunciabili; che stia lontano dai grandi e potenti (politici, mondo della finanza, etc…); che sia fratello di coloro che conosce e non politico tattico, né camaleonte a seconda delle necessità, per soddisfare tutti; sia fermo e deciso nel proclamare la giustizia. In una battuta: sia fratello degli uomini, particolarmente dei poveri, testimone del Vangelo.
Prima di concludere vorrei farti una domanda “imbarazzante”. In questi giorni sul sito sono apparsi diversi articoli, a firma di Andrea Filloramo, nei quali tanti preti manifestano “indirettamente” una certa sofferenza nei confronti del vescovo soprattutto perché non si sentono ascoltati. Tu cosa pensi?
La domanda non è per nulla imbarazzante. Conosco e stimo Andrea Filloramo per averlo invitato, in tempi non sospetti, a tenere una relazione sul sistema scolastico odierno. Mi ha fatto male leggere che qualche sprovveduto prete – che evidentemente non lo conosce – abbia potuto pensare che Andrea Filloramo volesse togliersi qualche sassolino. Chi pensa e vive così appartiene alla categoria degli “allineati e coperti”, gente che vuole difendere la poltrona e vegetare in tale ambiente. Torno alla domanda. In premessa dico che se fossi Vescovo (e certamente non sono animato dal desiderio di esserlo! In latino sarebbe un’ipotesi di terzo tipo) mi preoccuperei non tanto che parecchi miei preti dicano male di me, ma perché non lo dicono direttamente a me. Se ciò dovesse accadere, sarebbe evidente la presenza di un corto circuito nell’impianto paternità/figliolanza, che evidentemente non è alimentato dalla parresìa (tema sul quale ho dedicato un’intera lettera mensile). Per quanto concerne il disagio diffuso dei preti nella nostra diocesi (argomento di pubblico dominio), non ho mai celato le mie idee. Talvolta forse in modo troppo vivace ho manifestato le mie riserve su alcune scelte opinabili. Sono intervenuto parecchie volte (qualcuno direbbe, “troppe”) soprattutto presso il Consiglio Presbiterale Diocesano invitandolo a trattare anche questo spinoso problema che si ripercuote in tutta l’azione pastorale. L’ho fatto mettendoci sempre la faccia, mai in modo anonimo. E non sono certo un eroe, ma un semplice prete che si prende le sue responsabilità. Che pena le lettere anonime! Oltre ad avere fatto male ai diretti destinatari, hanno squalificato e infangato il presbiterio agli occhi di molti. Vicini e lontani. Auspico un cambiamento di marcia e di direzione, “in capite et in membris”. Ribadisco anche in questa sede che bisogna fermare le bocce e – “facendo la verità nella carità” – andare a indagare profondamente le cause remote e recenti di questo gap. Certamente non sarà tutta colpa del vescovo, così come non lo è solo dei preti. Mi viene in mente la toccante richiesta di perdono che mons. Michel Santier, vescovo di Luçon, ha pronunciato durante l’omelia della seconda sessione dell’Assemblea sinodale del 2 aprile del 2006. Se vuoi, puoi cercare sul web ampi brani dell’omelia e autorevoli commenti all’iniziativa di questo vescovo. Il dare e ricevere perdono mi sembra il primo passo necessario per chiarirsi e andare avanti. Quando non si parla questa lingua è impossibile capirsi. Attenzione: non ho detto che bisogna dire le stesse cose.
Hai scritto anche un pezzo pubblicato su “Settimana” che riguardava il complesso mondo dei preti (i giovani soprattutto) che non sanno resistere ai contentini della gerarchia. Che echi hai avuto?
Al di là di quanti sono intervenuti direttamente sulla rivista, all’inizio parecchi preti (giovani) hanno arricciato il naso. Qualcuno di questi ultimi, però, dopo sei mesi mi ha scritto: “…Leggendo il suo articolo di primo acchito mi sono inalberato, ora invece capisco perfettamente la portata profetica del suo intervento. Inizialmente, infatti, sono stato ‘promosso’ dai miei superiori, poi ho provato sulla mia pelle di essere stato strumentalizzato”. Temo che qualche altro prete si aggiungerà. È triste. Ma è così.
Davanti a questa situazione paradossale e dolorosa che riflessione fai? Quale messaggio ti senti di trasmettere in chiusura?
Fra i tanti generi letterari della Bibbia, a me piace molto quello “apocalittico”. Sembra un po’ criptico e spaventoso ma fa riflettere perché obbliga a guardare in avanti, non certo per distrarsi. Quando “fatti e segni sconvolgenti” segnano la vita dei credenti, schiacciandone la forza di reazione, mi viene spontaneo ruminare il versetto di Luca: “Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (21, 28 ). A me dà tanta pace e fiducia. Auguro che sia così anche per gli altri.