In queste ore, tra i commenti sulla delibera che avvia la mobilità tra le partecipate, è emersa una sorta di insofferenza rispetto al fatto che decine di persone possano ritrovare una loro prospettiva occupazionale e su cui noi invece esprimiamo viva soddisfazione. Non ci convince, infatti, quella ”insofferenza” che, leggendo anche articoli di stampa, sarebbe motivata ora dalla “biografia” dei lavoratori, ora dalla ricaduta finanziaria di questa scelta, ora dalla disoccupazione in cui, invece, resteranno impigliate migliaia di altre persone. Non ci convince perché questa insofferenza non è estranea ad un clima politico e culturale ferocemente antioperaio, che parte dall’alto e che trova la sua degna rappresentazione in un parlamento impegnato a smantellare diritti e tutele per i più deboli, lasciando intatti privilegi, ricchezze e rendite per i più forti.
Tale reazione alla delibera in questione è, dal nostro punto di vista, anche il frutto di tutto questo: di una società fragile, ma sofferente e incattivita da anni di crisi, che cova un rancore sordo, pronto a scagliarsi contro gli ultimi, i più poveri, i più isolati. Non possiamo dimenticare, infatti, che chi governa il paese, ha di fatto scaricato sui lavoratori e su quelle (poche) norme che ancora li proteggono dagli abusi datoriali, le responsabilità di questo disastro economico.
Anche solo qualche anno fa la collettività avrebbe respinto ancora più sdegnatamente questa incredibile mistificazione, che fa di una tutela dal licenziamento senza motivo l’origine dei mancati investimenti. Ma c’è la crisi, e mai come in questi momenti, le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti. Milioni di licenziamenti, miliardi di ore di cassa integrazione, precarietà di tutti i tipi: ma nessuna domanda, nessun pensiero critico. C’è la crisi, adesso. Non si parla del “prima”. Di quando la crisi è stata preparata e alimentata dal capitalismo italiano, da quella stampa che ne esaltava la sua capacità di “intrapresa”, dai governi di centro-destra e centro-sinistra che blateravano sulle potenzialità della flessibilità, sulla bellezza del poter finalmente passare da un lavoro all’altro, sul nostro straordinario tessuto produttivo: “piccolo è bello”, si diceva. E tutti ad applaudire la centralità dell’impresa, fosse anche una fabbrichetta in un sottoscala. La crisi, invece, adesso svela che la flessibilità è solo servita a bloccare i salari italiani (tra i più bassi d’Europa dopo la Grecia), che uscendo dal posto fisso si precipita solo nel baratro della disoccupazione, che la piccola impresa è stata travolta dalla crisi per manifesta incapacità, che la centralità delle imprese è rimasta solo nell’evasione fiscale e nella corruzione, e che il sottoscala – dove c’era la fabbrichetta – è stato allagato dall’alluvione causata dalla speculazione edilizia (magari avviata dal titolare della fabbrichetta).
Non sorprendono quindi gli attacchi ai lavoratori, siano neoassunti o perché non ancora sul punto di essere licenziati. Soprattutto quando questi attacchi giungono dall’alto, dagli scranni del parlamento (e dei ministeri), dall’oscurità di qualche Loggia, dalla plastificata asetticità di qualche redazione o dallo Yacht di qualche imprenditore. Risulta inaccettabile invece vedere che, per attaccare la classe lavoratrice, si utilizzino le condizioni di vita dei disoccupati, dei precari o dei reietti della società: perché sono il prodotto di una colossale espropriazione di ricchezza ai loro danni e proprio ad opera di chi adesso, per “salvare il paese” chiede tagli al welfare, ai salari e ai diritti.
Qui, nella periferia dell’impero il dramma occupazionale non si risolve continuando a non assumere nessuno, ma attraverso un piano straordinario per l’occupazione, che prenda la ricchezza là dove si trova (per esempio dai grandi patrimoni immobiliari e dalle rendite private) e la investa sul territorio, sulla ricostruzione materiale e morale di questa città e sul diritto al futuro per tutte e tutti.
Daniele David – Luigi Sturniolo