di ANDREA FILLORAMO
Nessuno può rimanere indifferente davanti alla notizia di un prete, anche se sconosciuto, che si uccide. Nel luglio scorso, stavo godendo le mie vacanze nella mia Sicilia, quando ho letto sui giornali: ”A Napoli, si suicida un prete barnabita, preside dell’”Istituto Denza”. L’uomo si è lanciato nel vuoto dalla finestra della sua camera da letto al quarto piano dello stabile di Posillipo. A trovare il corpo senza vita è stato un sacerdote del convitto dei barnabiti poco prima che arrivassero gli studenti per sostenere gli esami di maturità che, inizialmente, si era pensato di sospendere”. Molte allora sono state le domande che mi sono rivolto e fra queste: ”quali possono i motivi che inducono un prete al suicidio?”. Conoscevo per i miei studi che la persona che medita sul suicidio, si sente vuota, spenta e vive senza dare senso alla sua vita. Dietro la facciata della normalità, egli nasconde un’insoddisfazione totale, non crede più in se stesso e negli altri e si mostra cinico nei riguardi degli eventi della vita. Egli vive come in uno stato di silenziosa disperazione; la vita non è più per lui come un dono, ma come un vano affaccendarsi prima della morte. In questi casi non c’è una conclamata disperazione, ma uno strisciante andamento esistenziale. Anche se non esiste una profonda depressione, emerge sempre una propria aridità e incapacità di innamorarsi della vita e questo vuoto viene accettato come emblema del suo esistere. La morte giungerebbe come ad eliminare questo senso di svuotamento totale. Tale stato d’animo, pensavo, è lontano mille miglia dalla vocazione e dalla missione di un prete, che sollecitato dalle parole del Cristo, vede la vita come un dono di Dio. Il suicidio di un prete, quindi, è incomprensibile. Eppure avevo sentito e letto di tanti altri preti che si erano suicidati e cominciavo a riflettere sul fatto che, se ciò fosse stato reso verificabile, il suicidio dei preti sarebbe stato considerato un “ fenomeno” da studiare con molta attenzione. Mi sono subito, quindi, connesso a “Internet”, con l’intento di far la macabra “conta” dei preti suicidi negli ultimi anni, ma mi sono fermato al numero 35. Non sono riuscito, perciò, ad andare avanti. Mi rimangono ancor oggi impressi nella memoria i casi di: “D’Auria Alfredo, 66 anni da Tobbiana, frazione di Prato, che si è sparato alla tempia in sacrestia. “Damiani Vittorio, 62 anni, di Villa al Serio, diocesi di Bergamo, prete pedofilo, che si è impiccato dopo l’arresto”. “Addeo Francesco, 75 anni, da Pago Valle Lauro (AV), che si è sparato con fucile da caccia. “Agostini Marco, 43 anni, da Pomezia, che si è impiccato mentre era agli arresti domiciliari”. “V.G, monaco postulante 38enne di Napoli che si è ucciso lanciandosi dalla finestra del monastero benedettino di Monte Oliveto Maggiore”. “Agazzi Silvio, 48 anni, diocesi di Bergamo, collaboratore del vescovo, che si è impiccato in cantina”. Leggevo ancora altri nomi di preti suicidi: Caccia Silvano, 53 anni; Rabanser Emanuele Maria; Diletti Matteo, 39 anni; Recanati Sergio, 51 anni; Galizia Franco, 48 anni e molti altri ancora. Dinnanzi al numero così alto di preti suicidi, oltre a rimanere fortemente colpiti, ci poniamo immediatamente la domanda: “perché tanti preti si suicidano?” Certamente se commisuriamo il numero dei preti suicidi con il totale dei preti italiani, i preti che si uccidono sono un’esigua parte e, quindi, non si dovrebbe parlare di un “fenomeno”. Se riflettiamo, invece sulla categoria “prete”, che è diversa da tutte le altre categorie sociali e antropologiche in quanto afferma il valore della vita, il “ suicidio” che si presenta con una certa frequenza, è indubbiamente un “fenomeno” sul quale è lecito puntare la nostra attenzione. Riflettiamo, inoltre, sul fatto che Il suicidio è il gesto autolesionistico estremo, tipico in condizioni di grave disagio o malessere psichico, inaccettabile per un uomo di fede. Una risposta alle domande posteci, tenta di darla l’arcivescovo di Lucca Italo Castellani, nell’omelia del funerale di Don Franco Rossi, parroco della chiesa del Buon Consiglio, trovato con una corda robusta legata intorno al collo nel bagno della sua casa: "Quanto è accaduto è un fatto enorme, un fatto che toglie il respiro. Di fronte a tutto questo dolore si rimane sgomenti e sbigottiti". Non c’è spazio per il giudizio "Solo Dio conosce il cuore. Solo Lui può sapere quale equilibrio si è rotto, quale luce si è spenta nel cuore di Don Franco. Solo Lui, che legge nel segreto, sa come quella malattia sottile della solitudine esistenziale sia riuscita a invaderlo e poi a piegarlo. "State vicini ai vostri preti, non lasciateli soli nell’arduo ma esaltante compito di tramandare il Vangelo. Non lasciateli soli e non pretendete gesti di carità senza fede e senza amore". Torna, qui, il tema molto “sensibile” dei preti: la solitudine. La solitudine che il prete vive non ha nulla a che vedere, almeno non in modo determinante, con il fatto che, tornato a casa, non ci sia qualcuno che gli corre incontro o qualcuno con cui parlare o sfogarsi, con cui ridere o piangere. La vera, grande, solitudine del prete è ritrovarsi solo ed inascoltato nel predicare Cristo. La vera solitudine è non poter dire basta alla folla di lacrime che stanno alla porta e bussano perché dire basta, come scriveva don Primo Mazzolari, sarebbe dire basta a Cristo che viene e questo è impossibile. La solitudine del prete è trovarsi qualche volta nel deserto a parlare ad un mondo che non ti vuole ascoltare, che ti ascolterà un’altra volta perché troppo impegnato a correre dietro a ciò che non salva. La solitudine del prete è avere un tesoro in vasi di creta, desiderare condividerlo, e accorgersi che alle persone interessa più il vaso del tesoro. La solitudine talvolta è data dalla perdita della fede. Non tutti sanno che la situazione di solitudine del prete è un problema sociologico degli ultimi decenni. “In passato i preti erano più numerosi, nella stessa parrocchia erano in molti, poi accanto al singolo prete c’era la perpetua, magari c’era la mamma. Oggi su un solo sacerdote grava la responsabilità anche di più parrocchie. Le giornate sono costellate di impegni, il tempo che avanza per se stessi è scarso. Ed è poco anche il tempo per coltivare delle sane relazioni di amicizia. Questa pressione lavorativa genera stress: fare tante cose, in luoghi diversi, con tempi contingentati. Preti sempre più manager e sempre meno curatori di anime. In tale situazione il peso della solitudine diventa insopportabile” e può portare il prete “debole” e “indifeso” alla morte. Pensiamo anche al prete anziano, talvolta “mandato in pensione” e lasciato solo dopo una vita vissuta con gli altri e per gli altri. Finisco con il ricordo di un prete mio amico. Non si è impiccato, non si è buttato dal terzo piano ma si è suicidato bevendo tutti i giorni fino a morire di cirrosi epatica. Tanti conoscevano questa situazione. La conoscevo anch’io che vivo a più di mille chilometri di distanza. Mi sono subito posto allora la domanda: “il vescovo, la Curia, i suoi confratelli cosa hanno fatto per aiutarlo a non morire?”