“Se la preparazione scolastica degli alunni italiani è inferiore a quella di molti coetanei dell’area Ocse, la colpa non è di certo dei troppi compiti a casa che danno i docenti, ma della loro riduzione forzata del tempo che passano sui banchi: le riforme degli ultimi anni, all’insegna dei tagli, hanno infatti ridotto di un sesto l’orario scolastico, al punto che oggi l’Italia detiene il triste primato di far svolgere solo 4.455 ore studio nell’istruzione primaria, rispetto alla media dei 4.717 dell’area Ocse, e 2.970 in quella superiore di primo grado, rispetto alle 3.034 di media sempre dei Paesi Ocse”. A sostenerlo è Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, a commento dei dati pubblicati nelle ultime ore sull’eccessivo carico di compiti a casa che i docenti italiani darebbero ai loro allievi.
Il giovane sindacato autonomo ricorda che dall’ultima l’indagine Pisa, condotta dell’Ocse, oltre che dalle indagini Pirls (Progress in international reading literacy study) e Timss (Trends in international mathematics and science study) risulta chiaramente che a far fare un bel passo indietro al nostro sistema d’istruzione non sono stati i cambiamenti del metodo di studio adottati dai docenti, ma le riforme della scuola. In particolare, le Leggi 133/2008 e 169/2008. È tutto dire che la primaria, per decenni fiore all’occhiello del nostro sistema d’istruzione, solo di recente ha fatto registrare una netta riduzione di capacità e competenze acquisite dei nostri alunni iscritti alle quarte classi, sino a perdere ben 10 posizioni.
“I docenti, soprattutto i più esperti, si sono evidentemente resi conto di questo calo di prestazione e di competenze dei loro alunni – incalza Pacifico – e non potendo sopperire in altro modo sono stati costretti a ‘caricare’ sui compiti da far svolgere a casa. Penalizzando, chiaramente, quelli più in difficoltà e in condizioni socio-familiari sfavorevoli, che necessiterebbero di essere seguiti in classe. Perché, in fondo, sono questi i più penalizzati da questa situazione: il ragazzo studioso, invece, da sempre passa tante ore sui libri. Ed è giusto che sia così”.
All’incremento del tempo scuola vanno poi affiancati altri provvedimenti. Come il reintegro del docente specializzato nell’insegnamento della lingua inglese. E sempre alla primaria è fondamentale ristabilire il tempo pieno e le preziose ore di compresenza. Solo così sarà possibile rinforzare nuovi concetti e conoscenze, senza lasciare indietro gli alunni più in difficoltà o con tempi di apprendimento più lenti. Solo in questo modo potremo tornare a parlare di scuola includente davvero per tutti.
“Il problema – dice ancora il presidente Anief – è che quel modello di buona scuola è stato sostituito con l’attuale maestro ‘prevalente’ che svolge 22 ore, a cui si aggiunge lo ‘spezzatino’ composto delle altre materie, assegnato a diversi colleghi. Tra questi figura pure il maestro d’inglese, però non specializzato. Con il risultato che agli alunni si è data meno scuola. E di qualità più bassa, perché l’offerta formativa viene proposta sostanzialmente in modo disomogeneo”.
“Inoltre, il dislivello rispetto agli altri Paesi avanzati – continua Pacifico – non riguarda solo la primaria, ma anche le scuole superiori. Dove i nostri alunni, soprattutto quelli del Sud e nelle materie scientifiche, fanno registrare gap considerevoli. Anche in questo caso occorre attuare dei provvedimenti migliorativi: assieme ad un maggiore tempo scuola, andrebbero affiancati l’allungamento dell’obbligo formativo, da 16 anni a 18 anni, e l’avvio di stage in azienda reali e retribuiti”.
“Non va meglio all’Università, dove le tasse richieste dai nostri atenei agli studenti hanno subito negli ultimi anni aumenti esponenziali. Non lamentiamoci se poi soltanto il 15% degli italiani tra i 25-64 anni ha un livello di istruzione universitario, rispetto a una media Ocse del 32%. E se la percentuale di studenti quindicenni che spera di conseguire la laurea è scesa dal 51,1% del 2003 al 40,9% del 2009. E se, infine, sempre in Italia vantiamo il record di Neet tra i 15 e i 29 anni: nel 2013 i ragazzi che non lavorano e non studiano hanno avuto un aumento ancora più consistente del recente passato, raggiungendo il 26%, oltre 6 punti percentuali al di sopra del periodo pre-crisi”.