di ANDREA FILLORAMO
O Dio mio, quanti sono i “Natali” della mia vita! Li ricordo quasi tutti, anche se in modo sbiadito quando vado molto indietro nel tempo e il passato mi appare parziale, molto parziale. Esso mi sembra come avvolto da una coltre di nebbia, certamente non densa ma bianco-latte che sembra condurmi sopra e dentro le nuvole; sembra avvolgermi in un fumo implacabile e invece è solo nebbia impalpabile e inodore, che mi dà una sensazione forte e, nello stesso tempo, però, romantica. Ogni Natale lo collego a qualche avvenimento, a qualche persona, molto spesso a chi non c’è più, a mia madre consumata dal cancro, a mio figlio che mi ha lasciato a 25 anni, rapito da un crudele destino. Risento la loro voce, rivedo i Natali passati assieme. Una grande nostalgia quasi mi soffoca. Non sento allora più il canto degli angeli sospesi sulla grotta del presepe,che annunciano la nascita di Gesù e non vedo più l’albero addobbato che si erge maestoso nell’angolo più in vista della mia casa. Mi rendo conto che una coltre di “ pessimismo” copre parte della mia anima ma lascia sempre più scoperte e sempre più visibili le rughe che solcano il mio viso. Questo stato d’animo dura fino a quando irrompono a casa i miei nipotini, che vanno dagli otto a un anno dalla nascita. Ringrazio, quando essi mi danno, l’uno dopo l’altro, i loro “ regalini” e quasi mi gridano: “buon Natale nonno!” e il “buon Natale” si ripete quattro volte, accompagnato da un bel sorriso di Samuele, che tende le sue manine verso di me per essere preso in braccio. Solo allora abbandono il “ vespro esistenziale”, la “ tristezza più nera” e mi concedo alla luce, quella dei luminari ad intermittenza, delle palline colorate, della carta stagnola che fa scoprire che là sotto scorre un fiume; rivedo la grotta con Maria, Giuseppe e il Bambino posto nella mangiatoia, la stella cometa, i pastori di cartapesta, simboli di una fede condivisa che stenta, però, di trasmettere il messaggio che si rinnova nel tempo. Vedo il panettone, proprio quello che l’industria dolciaria ha predisposto per il nuovo anno, messo là sulla credenza ipocritamente abbellito con un nastro azzurro. “Celebro”, così, il nuovo Natale, forse quello che potrebbe essere l’ultimo della mia vita (ma questo lo possiamo dire tutti). Mi viene spontanea la considerazione che ovviamente il Natale di oggi è diverso da quello di quand’ero bambino! Cerco, quindi, di ricostruirlo attraverso la mia memoria. Ricordo che allora le festività, secondo la tradizione siciliana, iniziavano già nel primo giorno della novena, quando si predisponeva la cosiddetta “cona”. Si poneva, cioè, sopra un profondo ripiano della cucina un alberello e, poi, giorno dopo giorno, si rivestiva con fiocchi di bambagia: “u cutuni spusu”, che voleva simulare la neve e il biancospino. Si appendevano sopra l’alberello, mandarini, arance, mazzetti di peperoncini rossi. Sotto la cona, i più abbienti mettevano “cufinati chini d’arànci”, “cutugna”, “fichidinnia”, “nèspuli d’invernu”, “cosi duci fatti ‘n casa”, “ccicculatti”. Di fronte a tanta ghiottoneria, i ragazzini più “intraprendenti” non resistendo alla tentazione, “spilluzzavano” continuamente, così, sovente, anche la cona più riccamente addobbata rimaneva ornata solo di biancospino e bambagia. Da ciò, il detto siciliano: “Manciàrisi na cona” che significa “mangiare a crepapelle”. Talvolta sotto la “cona” con il muschio raccolto ai margini della “ ciumara” si componeva un bel tappeto su tutto il ripiano e si popolava di pecorelle ritagliate da un foglio e incollate con farina frammista ad acqua, su sagome di cartone. Sul tappeto si poneva poi una capanna con dentro un bambolotto che aveva le braccia alzate, più grandi delle statuite della Madonna e di S.Giuseppe e perfino dell’asino e del bue, posti là vicino. Nelle vie del villaggio, nei giorni di Natale, si sentivano le note delle “ciarameddi” che venivano suonate dai cosiddetti “ciaramiddari”, che andavano in giro per le case e sostavano anche davanti alle “putìe”, la “putia” di “Scannavino”, quella della “Cavalera” o di “Caliri “accompagnando con la musica le cosiddette “ninnareddi. Erano sempre attorniati dai ragazzi, radunati per ascoltare quelle nenie dolcissime, e che approfittavano dell’occasione per fare “una manciàta di càlia e di simenza”ed erano seguiti da “Sabbaturi u babbu” e talvolta anche da “Maria Minnazzi”. In tutto il periodo natalizio, in alcune case si giocava a carte, si mangiavano i “ scacci”, i “ ficasicchi”, “ a cutugnata”… La Chiesa, la notte e il giorno di Natale, era addobbata a festa e il prete ripeteva sempre la stessa predica ma non diceva mai, come fa oggi papa Francesco: “Buon Natale!”, “Buon giorno!” e neppure “Sia lodato Gesù Cristo” né, in occasione del Natale, faceva una raccolta di denari per i poveri, perché tutti eravamo poveri . Il Natale, allora, portava con sè degli odori particolari, che si diffondevano in tutte le “vineddi”, Tutte le donne, infatti, per quel giorno, preparavano piatti speciali, impossibili da gustare in un altri periodi. Potrei continuare ancora a “calarmi” nel clima del Natale di una volta, ma non posso con una riproduzione spontanea e, giunto a consapevolezza, non cogliere, nei Natali vissuti da bambino, il lento e ciclico passaggio del tempo e delle stagioni, le stagioni di un villaggio, il mio villaggio, fatto allora di circa duemila anime, che costituivano una grande famiglia, che ci ha educati a essere solidali, di volerci bene. Ricordo con nostalgia la vita di quel villaggio: il lavoro domestico, il correre dei bambini, le immagini di vicoli, mani che impastavano e ammassavano farina, che guidavano carretti, e riempivano secchi d’acqua dalle fontane. Sembrano scorci di tempi lontani, di secoli più che decenni. Buon Natale a tutti.