L’Italia si classifica ultima nell’Unione Europea per la spesa pubblica nell’istruzione: il dato è contenuto nell’Annuario statistico italiano pubblicato dall’Istat in questi giorni sulla base degli ultimi dati Ocse disponibili. Analizzando la Tavola 7.20 – collocata a pagina 269 del corposo rapporto annuale – si evince che il nostro Paese riserva alla crescita e alla cultura dei sui giovani appena il 4,6% del Prodotto interno lordo. La graduatoria è guidata dalla Danimarca (7,9% di “Spesa pubblica per l’istruzione in % sul Pil”), ma fanno meglio di noi anche tutti Paesi più vicini all’Italia, come Regno Unito (6,4%), Paesi Bassi (6,2%), Francia (6,1%), Portogallo (5,5%) e Germania (5,1%).
La stessa Spagna, che non brilla di certo per le condizioni economiche statali, riesce comunque a dedicare alla cultura delle nuove generazioni il 5,5%, che corrisponde quasi ad un punto percentuale in più rispetto all’Italia. Dall’indicatore, che si riferisce a tutti i livelli d’istruzione e considera come fonti di finanziamento le spese dirette pubbliche per gli istituti scolastici e i sussidi pubblici alle famiglie, emerge quindi un dato inequivocabile: su questo capitolo di spesa, l’Italia si piazza mestamente in fondo alla classifica dei Paesi europei.
Ma la differenza, purtroppo in negativo, di finanziamenti a favore di questo capitolo di spesa nazionale non si ferma ai confini dell’Unione Europea. Sempre l’annuario Istat riporta, come esempi, gli investimenti attuati in alcuni Paesi extra-europei: negli Stati Uniti, ad esempio, la spesa pubblica per l’Istruzione è pari al 6,9% del Pil. Superano ampiamente il nostro Paese anche l’Australia (5,8%) e il Giappone (5,1%).
Il confronto diventa ancora più vistoso se si va anche ad individuare il “Tasso di scolarità dei giovani di 15-19 anni”, dato dal rapporto tra gli iscritti a qualsiasi livello di istruzione in quel range anagrafico e la popolazione della stessa fascia d’età: nella stessa sintesi, l’Istituto nazionale di statistica ha rilevato non solo che nella nostra Penisola è inferiore rispetto alla maggior parte degli altri Paesi europei, ma anche che tra il 2011 e il 2012 in Italia è pericolosamente calato passando dall’81,3% all’81%. Mentre fa un certo effetto sapere che in Germania la frequenza scolastica nella stessa fascia di età è superiore al 90%. E che in altri Paesi, come Belgio, Irlanda e Paesi Bassi si attesta addirittura attorno al 93-94%.
Non ci si può meravigliare, quindi, a fronte di questi dati, se da noi il tasso di conseguimento della maturità superiore e del diploma di laurea è fermo, rispettivamente, al 79% e al 32%. Negli altri Paesi europei, questi dati – “derivanti dal rapporto tra gli studenti che hanno conseguito per la prima volta un titolo di istruzione secondaria di secondo grado o terziaria e la popolazione di età teorica corrispondente al conseguimento del titolo” – sono di ben altro spessore: il Danimarca, che investe nell’Istruzione quasi il doppio dell’Italia, arriva al diploma il 90% e alla laurea il 50%. Se si guarda solo al conseguimento del titolo di scuola secondaria superiore, la Finlandia riesce nel 96% dei suoi giovani. Germania, Regno Unito e Paesi Bassi si attestano tra il 92% e il 95%.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, “questi dati confermano che investire nella formazione, nella scuola e nell’università non va considerata una spesa, ma un saggio investimento: perché un giovane ben formato e preparato è una risorsa in più, anche per rilanciare lo sviluppo economico del Paese. Per questo motivo, spendere di più per formare capitale umano significa credere nella capacità civilizzatrice e lavorativa dei cittadini. E, nel contempo, gettare le basi per la costruzione di una società equa e solidale”.
“Non lo insegna soltanto l’economista francese Jean-Paul Fitoussi, ma lo praticano da tempo, con risultati fruttuosi, oggi confermati dall’Istat, la cancelliera Angela Merkel e il presidente Barack Obama. Con le loro economie che hanno tenuto testa alla crisi. Mentre la nostra ora presenta il conto, per l’insensata riduzione di risorse, personale e strutture che hanno contrassegnato gli ultimi anni alla voce Istruzione. E alla luce della Legge di Stabilità approvata a ridosso di Natale non sembrano essere tramontati: al di là degli annunci, la cancellazione delle supplenze brevi e degli esoneri dei vice-presidi, ma anche la mancata stabilizzazione dei 100mila docenti precari abilitati dopo il 2011 – conclude Pacifico – confermano che la pagina dei risparmi a caro prezzo a danno della scuola, degli allievi e di chi vi opera, non è stata ancora voltata”.