A una manciata di giorni dalla scadenza per la presentazione della domanda di accesso alla pensione, da maturare dal 1° settembre 2015, prende corpo l’ipotesi della fuga dall’insegnamento: approfittando della riduzione delle penalizzazioni previste per il pre-pensionamento, introdotta dalla Legge di Stabilità proprio per coloro che fanno domanda a partire da quest’anno, risultano 17mila i docenti che hanno chiesto di lasciare il servizio, il 70 per cento in più rispetto all’anno scorso. È un dato sicuramente positivo, se si pensa che in Italia, scrive oggi il Corriere della Sera, ci sono “i professori più vecchi d’Europa: più della metà sono over 50” e “quelli sopra la sessantina sono addirittura l’11% alle elementari, il 13% alle superiori e il 15% alle medie. Tanto per capirci: 6 punti sopra la media dei Paesi Ocse”. Mentre siamo il Paese europeo con meno docenti under 40: appena il 10,3%.
A favorire l’alto numero di domande per accedere alla pensione è stato l’emendamento approvato con la Legge 190 del 23 dicembre scorso, presentato dalla deputata del Pd Luisa Gnecchi, che ha modificato una parte della riforma previdenziale Monti-Fornero del 2011: permettendo alle lavoratrici con meno di 62 anni di età, in possesso di 41 anni e mezzo di contributi, i lavoratori 42 anni e mezzo (periodi di effettivo lavoro, comprendenti però astensioni come maternità e obblighi di leva), di non incappare più nelle decurtazioni. Che erano tutt’altro che figurative.
“La legge Fornero – ha calcolato la stampa nazionale – ha previsto delle penalizzazioni per chi chiede la pensione anticipata prima di aver raggiunto una determinata soglia anagrafica. In particolare, l’assegno pensionistico lordo si riduce dell’1% per ogni anno che precede il compimento dei 62 anni. La penalizzazione sale addirittura al 2%, per ogni anno che precede invece i 60 anni all’anagrafe. Esempio: se un lavoratore ha accumulato 42 anni e mezzo di carriera ma ha “appena” 58 anni di età, può attualmente mettersi a riposo ma subisce un taglio dell’assegno di ben il 6%. Su una pensione lorda maturata di 1.500 euro al mese (circa 1.200 euro netti) questo sistema comporta in linea di massima una decurtazione di 90 euro mensili lordi (e di 60 euro netti)”.
Il problema è che l’emendamento Gnecchi non ha cancellato la penalizzazione introdotta con la Legge Fornero, ma ha solo permesso di “bypassarne” gli effetti tra il 2015 e il 2017. Per tutti coloro che hanno lasciato il servizio per la pensione a partire dal 1° gennaio 2012, fino al 31 dicembre 2014, e poi quelli che lo lasceranno a partire dal 2018, la penalizzazione continuerà a permanere. Anief ritiene questa norma non applicabile ad un periodo limitato: pertanto preannuncia di avere incaricato i propri legali di esaminare le modalità per impugnare questa norma discriminante, che ha già penalizzato doversi migliaia di lavoratori, sottraendo ad ognuno oltre mille euro lordi l’anno.
Si tratta di una cifra notevole, anche perché il collocamento in pensione in Italia non è di certo un viatico verso il benessere. Negli altri Paesi moderni, l’assegno di quiescenza è decisamente più alto, perché di determina sulla base dei contributi versati, senza decurtazione. In Francia, ad esempio, l’età minima di pensionamento pur essendo stata innalzata, prevede comunque di lasciare la scuola a 62 anni. E in Polonia e a Cipro l’età minima per lasciare il lavoro in cambio di una pensione piena al completamento del numero di anni di servizio svolti, sempre senza decurtazione, è fissata a 55 anni. Poi ci sono diversi altri, tra cui Belgio, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna, Lussemburgo (pag. 93 dell’ultimo Rapporto Eurydice della Commissione europea ‘Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa’), dove, allo stesso modo, è possibile ottenere “una pensione piena al completamento del numero di anni di servizio richiesti”.
Mentre in Italia l’unico criterio che è prevalso è stato ancora una volta quello della salvaguardia dei conti pubblici. Basta ricordare che dal primo gennaio 2016 verrà posticipata di ulteriori quattro mesi l’età e i requisiti per accedere alla pensione. L’adeguamento per accedere all’assegno di quiescenza è stato realizzato dall’Istat sulla base delle nuove speranza di vita, come previsto da una norma approvata dall’ultimo Governo Berlusconi che prevedeva il ritocco dei requisiti con cadenza triennale: nel 2013 il salto in avanti fu di tre mesi, ora se ne farà uno ancora più lungo. Il concetto è semplice: poiché si vive più a lungo (le donne oltre gli 85 anni) occorre andare in pensione più tardi. Ma qualora le aspettative crescenti non dovessero realizzarsi, si è anche provveduto ad introdurre una salvaguardia, sempre a tutela dello Stato e non certo dei lavoratori: dal 2022, infatti, la Legge 224/2011 prevede che comunque l’età di pensionamento non potrà essere inferiore ai 67 anni per tutti.
Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, ricorda che in Italia la normativa sulle pensioni sta diventando insostenibile: “solo nell’ultimo quinquennio, le riforme sulla quiescenza hanno allungato di dieci anni l’età pensionabile. Con effetti diretti su alcuni comparti, come quello della scuola. Dove deteniamo il record mondiale di età dei docenti: più della metà ha più di 50 anni. E a nessuno di loro si concede la possibilità, nemmeno a ridosso della pensione, di diventare tutor dei giovani colleghi. E che dire dei migliaia Quota 96 ormai abbandonati al loro destino, dopo essere arrivati ad un passo dalla soluzione dell’errore attuato nei loro confronti con la legge Fornero?”.
“Ora arriva pure la beffa delle decurtazioni a tempo. Ma noi non ci stiamo: se si vuole ringiovanire il corpo insegnante italiano la norma che elimina le penalizzazioni va confermata e resa retroattiva dal 2012. Non dimentichiamoci che in Germania si può andare in pensione dopo 27 anni di contributi versati”, conclude Pacifico.
Vinti dall’insoddisfazione per il lavoro, la sempre minore considerazione sociale e timore di ritrovarsi a combattere con nuove generazione e difficoltà crescenti, dietra cattedra fino a quell’età, tanti docenti hanno scelto la via più logica: quella di andarsene. Secondo Repubblica.it sono tanti i motivi dell’esodo: “turn-over fisiologico, ricerca di una vita più a misura d’uomo o ritirata da una scuola ormai troppo complessa? Forse tutte e tre le cose”. L’ipotesi che giustifica un incremento così sostanzioso di domande è che, ormai, l’insegnamento rappresenta un lavoro sempre più difficile (da realizzare con nativi digitali), “complicato dall’età che avanza e dalle tecnologie che hanno invaso prepotentemente le scuole italiane. Con una retribuzione che ha perso potere di acquisto negli ultimi cinque anni e una considerazione sociale ai livelli più bassi che la categoria ricordi. E per molti, questo basta per ammainare le vele e sperare in un dopo migliore”.
Il futuro da pensionati però non lascia molte speranze: troppo spesso l’assegno di quiescenza è non troppo superiore alla soglia di povertà. I numeri ufficiali parlano chiaro: “per più di quattro pensionati su dieci l’assegno non arriva neppure a mille euro al mese”. Con oltre la metà di pensionati (il 52%) che devono tenere stretta la cinghia rappresentato proprio da donne. E l’organico della scuola nell’81% dei casi è composto proprio dal genere femminile.