FALCONE, QUANDO L’ITALIA FU PARTE CIVILE CONTRO I BOSS

Ventitre anni fa la strage di Capaci. Che sabato 23 sarà ricordata a Palermo da 40 mila studenti, e dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. Sarà una giornata della memoria che porterà tutti indietro col pensiero a quel sabato del 1992. Quando, alle 17,58, un’esplosione sconvolgente mandò per aria, con la forza devastante di oltre 500 chili di tritolo, la Fiat Croma in cui, sulla A29 nei pressi di Palermo, viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Fu l’attentatuni, con le parole del killer di mafia Gioacchino La Barbera.
Due mesi dopo, il 19 luglio, un altro botto scuoterà Palermo. E non solo Palermo. Erano le 16,58 di una tranquilla domenica quando una Fiat 126 rubata e imbottita di esplosivo venne fatta esplodere con un telecomando, in via Mariano D’Amelio. Fu uno scenario lunare, tra fumi, crateri e brandelli di carne sparsi qua e là. A perdere la vita, quel giorno, furono Paolo Borsellino, collega e amico d’infanzia di Falcone, e i cinque uomini di scorta: Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano.
Ma tra l’una e l’altra strage, qualcosa era accaduto. Qualcosa s’era rotto nelle coscienze e nella società. E qualcosa cominciava a cambiare. Nacquero movimenti spontanei. E nacque pure una simbologia dell’antimafia che per un po’ assunse anche i lenzuoli appesi ai balconi di Palermo, come metafora di lotta.
Ma non fu solo spontanea ripulsa sociale di un fenomeno la cui esistenza, in un passato non troppo remoto, era stata persino negata. A farsi interpreti del bisogno di rottura morale e rivolta civile contro Cosa nostra, i suoi tentacoli e le sue zone grigie, furono Cgil, Cisl e Uil. Che un mese dopo Capaci, un sabato di giugno, organizzarono una straordinaria mobilitazione nazionale contro la mafia, all’insegna dello slogan “L’Italia parte civile”. A Palermo, il 27 giugno del 1992, arrivarono centomila persone da tutta Italia e non solo, con novecento pullman, dieci treni, sei aerei e sette navi. Fu una pacifica e assordante invasione che fece del Paese intero ideale parte civile nel processo ai clan. Palermo si colorò di bandiere, cartelli e striscioni. Si riempì di taccuini e telecamere. Fu palcoscenico e cornice assieme della prima grande manifestazione nazionale unitaria dei confederali, per la legalità. E contro la cultura e la società dei boss. “Ricordo sempre – ha dichiarato Maria Falcone, sorella del giudice ammazzato – che in Italia la vera guerra alla mafia si è scatenata dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quando la società civile è scesa in piazza e ha chiesto a gran voce allo Stato un’azione contro il crimine organizzato, degna di uno Stato civile”. Cgil, Cisl e Uil, si legge in un documento di allora, chiedono che il “potere mafioso venga isolato nelle coscienze; indebolito nelle sue connivenze con i settori inquinati delle istituzioni, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria, dei partiti”. E sostengono “con forza gli apparati dell’investigazione, della sicurezza, dell’azione giudiziaria”. “Noi – ebbe a dire l’allora leader della Cisl Sergio D’Antoni illustrando l’iniziativa assieme a Bruno Trentin (Cgil) e Adriano Musi (Uil) – vogliamo dare testimonianza a Falcone determinando un moto popolare continuo e costante” che sia di “stimolo e pressione per tutti i poteri costituzionali”. E per Trentin, il sindacato intendeva contribuire alla costruzione di “un rapporto nuovo fra le forze di pubblica sicurezza e il cittadino: snodo importante per un reale presidio del territorio”.
Ora, 23 anni dopo, con le parole dell’attuale segretario della Cisl Sicilia, Mimmo Milazzo, “il punto è non dimenticare. Non abbassare la guardia. Anzi, tenerla alta a tutti i livelli. Contro corruzione, ingiustizia, economia criminale. Prevaricazione parassitaria dei boss”.
La protesta dei confederali contro l’economia e la società mafiose si ripeté, con lo stesso slogan e ancora a Palermo, dieci anni dopo: il 27 giugno 2002. Identico l’intento. Che vale ancora adesso. E vale pure per i 40 mila studenti che arriveranno a Palermo da ogni parte: levare la voce affinché non accada più che qualcuno sia costretto angosciato ad ammettere, come accadde a Borsellino poche ore dopo l’esplosione di Capaci, che “devo fare in fretta perché adesso tocca a me”.