Passano gli anni, non si contano più gli annunci sul rilancio dell’istruzione pubblica, ma la nostra Penisola per quanto riguarda le competenze degli alunni, rimane in fondo alle classifiche internazionali: oggi l’Ocse ha confermato che l’Italia è il Paese dell’area “con la maggior percentuale di giovani in età lavorativa (16-29 anni) e adulti (30-54) con scarse competenze di lettura, rispettivamente il 19,7% e il 26,36%”. L’Italia detiene, inoltre, “la percentuale più elevata di persone con scarse abilità in matematica tra gli adulti, il 29,76%, e la seconda tra i giovani in età lavorativa, il 25,91%, dietro agli Usa (29,01%)”.
Come se non bastasse, anche il numero di giovani che lascia la scuola avendo solo conseguito la licenza media rimane altissimo: l’Italia detiene il numero più alto di under 25 che hanno abbandonato la scuola senza ver conseguito il diploma di maturità e senza iscriversi ad altri generi di corsi: siamo fermi al 17,75%, dietro la Spagna con il 23,21%. Con l’abbandono scolastico che “ha un impatto significativo rilevante sul livello di competenze: se si considera per esempio la matematica, la percentuale di persone con competenze insufficienti è del 58,5% tra chi non ha terminato le superiori, e scende al 27,7% per chi ha ottenuto un diploma”.
Ma le brutte notizie non sono finite. Perché quello che una volta si chiamava il Belpaese, oggi deve fare i conti, riferisce sempre l’Ocse, con una percentuale record di giovani ‘Neet’, non occupati né iscritti a scuola o in apprendistato: rappresentano il 26,09% degli under 30, quarto dato più elevato tra i Paesi dell’area. Mentre, prima che prendesse il via la crisi economica, nel 2008, erano il 19,15%, quasi 7 punti in meno.
Il sindacato reputa questi dati doppiamente allarmanti. Prima di tutto perché rappresentano un dato oggettivo di quanto sia decaduto il nostro sistema d’istruzione a seguito delle politiche dei tagli ad oltranza imposti negli ultimi setto-otto anni, sia rispetto al numero di scuole, sia al numero di ore di lezioni settimanali, sia in riferimento alla cancellazione di oltre 200mila posti tra personale docente e Ata. In secondo luogo, l’allarme si acuisce dal momento che la riforma su cui Governo e maggioranza parlamentare stanno puntando non condurrà ad alcun cambio di marcia.
La via per migliorare i risultati scolastici e ridurre gli abbandoni dei banchi non ci sono ricette miracolose. Ma dei provvedimenti di buon senso: oltre che riportare gli organici a livelli delle riforme pre-Gelmini, il nostro Esecutivo farebbe bene a leggersi i risultati di una autorevole ricerca scientifica di Peter Dolton, docente di Economia presso l’Università del Sussex e ricercatore presso la London School of Economics, Oscar Marcenaro-Gutiérrez, professore dell’università di Malaga, e Adam Still esperto di Gems Education solutions: in una recente ricerca, i tre esperti di formazione sono giunti alla conclusione che occorre pagare meglio i docenti e contemporaneamente ridurre il numero di allievi per classe.
“Dolton e i suoi compagni d’avventura – ha scritto ‘La Repubblica’ – hanno scomodato la statistica per incrociare i dati della spesa per l’istruzione di 30 paesi Ocse con le performance nel Pisa dei rispettivi quindicenni”. Ora, “la scheda di approfondimento stilata per l’Italia suggerisce di intraprendere due strade per aumentare l’efficienza del nostro sistema educativo: aumentare del 10,5 per cento le retribuzioni degli insegnanti e ridurre l’affollamento delle classi di un quarto. Finora, gli "esperti" italiani ci hanno sempre detto che abbiamo troppi insegnanti e che le nostre classi hanno pochi alunni. E i governi si sono affannati a tagliare cattedre e stipendi di maestri e prof e a riempire, anche oltre le norme attuali, le classi di alunni. Ma, stando alla prima statistica ufficiale che prende in esame l’intero mondo complesso della scuola, è tutto il contrario. Il nostro sistema pubblico di istruzione fa fatica a produrre risultati apprezzabili perché i docenti sono pagati poco e perché le classi sono sovraffollate di alunni. Motivo per il quale la dispersione scolastica, specialmente in alcuni ambiti, è alle stelle”.
“Quella ricerca – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief, segretario organizzativo Confedir e neo eletto segretario Confederale Cisal – ha confermato quanto sosteniamo da tempo: se l’Italia vuole farla finita di perdere per strada 2 milioni e 900mila giovani delle superiori, come è accaduto negli ultimi quindici anni, occorre incentivare i lavoratori della scuola, docenti e Ata, in due modi: dare loro stipendi dignitosi, iniziando a riportarli almeno al costo della vita, e metterli nelle condizioni di lavorare meglio, riducendo il numero di alunni cui devono indirizzare il loro insegnamento”.
Il sindacato ricorda, ancora, che il tempo-scuola con la Legge 133/08 si è ridotto più di un sesto: oggi l’Italia detiene il triste primato negativo di 4.455 ore studio complessive nell’istruzione primaria, rispetto alla media di 4.717 dell’area Ocse: non solo, alle ex elementari è subentrato il maestro “prevalente” che svolge 22 ore, con il resto dell’orario assegnato anche ad altri 4-5 colleghi. E il docente d’inglese della primaria non è più specializzato. Così si è arrivati a produrre l’attuale modello formativo, di qualità più bassa, perché l’offerta formativa non ha più una struttura propria. Lo stesso vale per la scuola superiore di primo grado, visto che i nostri ragazzi passano sui banchi 2.970 ore, contro le 3.034 dei Paesi Ocse.
“Per quanto riguarda gli abbandoni scolastici e il numero di Neet da record – continua Pacifico –, riteniamo plausibile anticipare il percorso formativo di un anno e, nel contempo, estendere l’obbligo formativo a 18 anni, come saggiamente tentò di fare nel 1999 l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Se a questo aggiungiamo l’utilizzo di fondi ulteriori, nazionali e europei, finalizzati a migliorare l’orientamento scolastico, e la maggiorazione di quote di organico di personale da destinare proprio nelle aree più a rischio dispersione, assieme ad una vera riforma dell’alternanza scuola-lavoro, possiamo seriamente pensare di avvicinare quel 10 per cento di dispersione indicato dall’Ue all’inizio del nuovo millennio come soglia massima – conclude il sindacalista – per un paese che si reputa moderno e avanzato”.