di Diego Costa
Con quella faccia un po’ così, da gaucho-scugnizzo che aveva scelto l’Italia, napoletano di Buenos Aires, Bruno Pesaola ha avuto come pregio quello di aver dato alle squadre delle città dove ha allenato di più la sensazione di essere stato soprattutto l’allenatore di quei colori. E’ capitato alla Fiorentina e a Firenze, città dove vinse uno scudetto; è capitato a Bologna, sei anni di panchina, una coppa Italia conquistata; è successo a Napoli, la città che scelse come la sua, dopo il pallone. Se n’è andato poco prima di festeggiare i novant’anni in un giorno di maggio, quando il pallone è vicino a fare festa, come dopo aver finito un’altra stagione. Il pallone che certamente non gli sarà mancato, soprattutto quello del malaffare e dei Blatter.
Pesaola infatti aveva il pregio di difendere del calcio – pur con una gestione tecnica di prim’ordine e vincente, pur allenando grandi giocatori e squadre di rango – il valore del gioco. E alle parole il giusto peso. Leggero, molto più di un gol o di un’espulsione. Quanti suoi colleghi, soprattutto tra quelli di oggi, non ne sono più capaci. Non ho sotto mano dati in questione, ma credo che Pesaola non avesse bisogno del "silenzio stampa". Sapeva domare anche il più incauto e impertinente dei giornalisti con il piacere della battuta e con l’ironia. Rispondendo senza dire nulla. Un illusionista, ma arguto e intelligente. Al giornalista di fama nazionale che – si narra – non aveva in simpatia il Petisso, e che lo apostrofò, un giorno, asserendo che "il bravo allenatore è quello che mette bene in campo i suoi calciatori", rispose con umorismo e leggerezza: "Io li metto bene in campo, ma poi loro si muovono". Nonostante i tanti anni trascorsi in Italia, più di quelli vissuti in Argentina, Bruno Pesaola non aveva perso il suo accento sudamericano. Chissà, forse era un vezzo. Lui era l’ultima icona di un calcio capace di ridere di sé, di prendersi sul serio solo quando contava, lui che si alzava dalla panchina per fare un segno ai suoi, plateale, il braccio agitato "alla John Wayne". Mentre in tribuna tutti pensavano che stesse invitando la squadra ad attaccare in massa (così avrete capito pure il gesto: avanti!), racconta Eraldo Pecci che il Petisso, in piedi, ammonisse invece i suoi difensori: "Chi se move da lì dietro lo ammasso" diceva.
Caro Petisso, riposa in pace: troverai anche in Cielo un tavolo per giocare a carte, magari con Gianpaolo Marchetti, nostro indimenticabile collega. E un paio di angeli da schierare… alle ali.