Il 26 novembre 2013, con la delibera 79 C, il Consiglio Comunale ha aderito alla campagna “Un posto occupato contro il femminicidio” e si è impegnato alla riserva fisica e materiale di un posto all’interno dell’aula consiliare, segnalato da un cartello. Anche un’iniziativa del genere non era stata priva di polemiche: c’era stato un battibecco su chi si fosse intestato per primo l’iniziativa, se l’assessora alle pari opportunità o la presidenza; e un altro dibattito era sorto su quale posto si dovesse occupare: il sindaco aveva offerto il proprio, i consiglieri si erano lamentati del fatto che il posto del sindaco andava occupato dal sindaco, e avevano scelto di destinare al cartello di “Posto occupato” un’altra sedia, al primo banco, vicino alla porta d’ingresso.
Il cartello è stato lì per qualche tempo. Poi, non so per quale motivo, è scomparso.
Ora, a qualcuno potrebbe sembrare una polemica sterile: in fondo, si trattava di un segno; lo sappiamo tutti che le violenze domestiche e le uccisioni di donne non si arrestano perché esiste un posto occupato nei luoghi pubblici; lo sappiamo tutti che l’intervento della politica non può limitarsi a ricordare, con un cartello, tutte quelle donne che, prima di essere ammazzate, occupavano un posto sull’autobus, al teatro, in un’aula universitaria, a scuola, nella società. Eppure, noi avevamo preso un impegno.
Mi chiedo, oggi, perché quel segno fortemente simbolico, che ci eravamo assunti la responsabilità di accogliere in quest’aula, sia sparito. Mi chiedo perché sia stato ritenuto così scarsamente significativo. Purtroppo, da donna che abita quotidianamente questi spazi, non riesco a non fare un nesso istintivo tra questo mio interrogativo e le tante, troppe battutine, che ogni giorno, nei corridoi o al bar, nelle commissioni o mentre si chiacchiera del più e del meno, tradiscono e rivelano quel maschilismo strisciante di alcuni, spesso inconsapevole, che è il terreno culturale su cui fioriscono le violenze contro le donne. Immagino che questa frase possa esser letta da qualcuno come l’esagerazione di una fanatica femminista e moralista. In fondo, ho sentito spessissimo, da alcuni miei colleghi, espressioni del tipo: “Non ha senso parlare di femminicidio, uccidere è reato e stop, sia che si tratti di un uomo sia che si tratti di una donna”. Ma è proprio questo il punto. I numeri parlano: in Italia c’è una vittima di femminicidio ogni due-tre giorni. Le donne vengono uccise proprio perché donne: donne che hanno abbandonato, donne che hanno tradito, donne che vogliono vivere la propria autonomia economica e di scelta, donne che decidono di sottrarsi alla sottomissioni e ad abusi psicologici o fisici. E il femminicidio è la punta dell’iceberg di violenze domestiche o interne alla coppia perpetrate per mesi o anni. Quelle donne vengono uccise perché il virilismo della nostra cultura fa sì che certi uomini non accettino di essere rifiutati o abbandonati. E’ un problema complesso e delicato, che non può trascurare l’apprensione e la cura verso l’incapacità di molti maschi di gestire in modo sano la frustrazione della perdita o dell’orgoglio ferito. Sono notizie drammatiche che sembrano esplodere dal nulla, eppure sono delitti annunciati, anticipati da possessività, violenze manifeste o sottili. Eppure, poi si parla di raptus improvviso: come se andare ad affrontare una discussione con la propria ex portandosi in tasca un coltello sia un raptus improvviso. Sono storie familiari di cui all’esterno arriva un’eco, ma “non ci si deve ficcare il naso perché sono fatti degli altri”: nella maggior parte dei casi questi reati vengono trattati come una questione privata, da risolvere tra le mura domestiche, e non una questione che ci coinvolge tutti, in una società incapace di riconoscere e guarire questo dramma, figlio di un modello patriarcale di possesso e dominio, e di un analfabetismo emotivo che rende molti incapaci di manifestare la rabbia o il dolore senza arrivare alla violenza. Una parte del mondo maschile spesso banalizza o minimizza il problema, o lo ritiene distante da sé, cosa non sua; una parte del mondo femminile nutre questa sub-cultura imitando e scimmiottando i modelli maschili…e i commenti sono “quella sì che ha le palle..quella sì che è cazzuta”.
Qualsiasi sia stato il motivo della sua scomparsa, se una scelta o una svista o una leggerezza, io chiedo che il posto occupato venga ripristinato: per rispetto dell’impegno preso, ma soprattutto per ricordare ogni mattina, quando passiamo davanti a quella sedia, che di queste atrocità siamo in parte responsabili tutti, quando avalliamo col sarcasmo, col silenzio, con battute o espressioni sessiste, ma soprattutto con pratiche e convinzioni profondamente maschiliste – di un maschilismo quasi mai ammesso– questa cultura da cui si originano i drammi di bambine, ragazze, donne private dell’autonomia, della dignità e della vita.
Ivana Risitano, Consigliera Comunale – Messina