Direttore caro,
condivido con te (e se vuoi con i lettori) gli echi alquanto interessanti e provocatori dell’omelia della messa vespertina del 18 luglio u.s. nella chiesa di S. Giacomo. Alla fine potrebbe essere una sorta di ampliamento del commento evangelico apparso su IMG Press sabato mattina. Lo stile necessariamente è sintetico.
La liturgia di oggi ci pone innanzi una tematica sensibile e attuale. L’evangelista Marco esprime la “compassione” che Gesù prova per la folla, spinto dalla visione di una folla immensa, un’accozzaglia di persone, una “mandria di pecore senza pastore” (Mc 6, 30-34). La prima lettura, tratta dal libro del profeta Geremia, ammonisce i “pastori che disperdono il gregge” (cfr. Ger 23, 1-6). Tocca al Salmo, in questo frangente, riannodare le fila del discorso che le letture di oggi hanno posto al centro, con l’esaltazione del Buon Pastore.
Il parroco ha sviluppato il discorso partendo da Geremia. Prima ha contestualizzato il brano, per meglio comprendere gli sviluppi che lo stesso profeta presenta. Esso è tratto da un’articolata sezione del libro di Geremia che parla del fallimento della leadership, ossia di quella posizione ricoperta dai pastori, dalle guide, dai responsabili del popolo. Il profeta ne parla apertamente e sostiene la presenza di una “cupola” del potere, evidentemente difficile da sradicare. È così che egli decide di prender nota e denunciare il fatto, ammonendo gli stessi pastori e mettendoli in guardia dalle loro scelte scellerate. Geremia lamenta: cosa c’è da fare? Intanto, denuncia questa realtà.
Sbagliamo se giungiamo a pensare che questo non sia che il punto di partenza: certi pastori non fanno altro che disperdere il gregge e Geremia non può star zitto. Egli, in particolare, sta giustamente rileggendo la disgrazia della deportazione a Babilonia nel 587, come conseguenza di scelte incomprensibili.
Ci si chiede: il coraggio mostrato da Geremia c’è ancora oggi? Si giunge così a una triste conclusione. Se c’è, è indubbiamente accompagnato dall’inserimento di questi coraggiosi nella lista dei proscritti, talvolta da parte della stessa autorità ecclesiastica.
A questa conclusione si può accostare anche quella sposata da Geremia: Dio interviene, egli lo sa bene. Il profeta sa che questa logica per la quale un pastore è disposto a “scannare” le sue pecore per cibarsi della loro carne, è assolutamente avversa a quella divina. Per questo, nessuna pecora dovrà più temere o sgomentarsi: basta che attenda la giustizia del Signore.
Sarebbe bene domandarsi che cosa ha fatto sì che quei pastori si sostituissero alla legge e alla giustizia, divenendo essi stessi parametro di quest’ultima. Chi esercita un ministero infatti, è chiamato a farlo guardando al Cristo e con la consapevolezza che il gregge non gli appartiene: “«Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli»” (Gv 21, 15).
Antonio Ballarò