ANDREA FILLORAMO
Non mi illudo di essere uno scrittore ma so che da tanti anni scrivo e sono persuaso, come dice Mario Mariani (Solarolo, 1884 – San Paolo, 1951), che “uno scrittore è un uomo che con una musica gentile si tira vicino un lettore poi gli appiccica una frustata in faccia e questa frustata è salutare”. È vano ormai negare l’esistenza dei mali” nella Chiesa o “degli uomini di Chiesa” o scongiurare con noncuranza boriosa i problemi poderosi e minaccevoli, che fino all’avvento al soglio pontificio prima di papa Benedetto e poi di papa Francesco, si cercava di tener ben nascosti. È questo un tema formidabile che s’impone a tutti e nessuno più si meraviglia, come dice don Gabriele Burani, rettore del seminario di Reggio Emilia circa i casi di pedofilia dei preti e dei vescovi, delle loro amanti segrete, dei loro rapporti omosessuali, dei maneggi del denaro, avendo sempre ben presentepossibili interventi della magistratura e la pubblicazione nei giornali. Tutti hanno il diritto e il dovere di esprimere su tutti i casidei giudizi purché i fatti siano, però, accertati. È opera di chi scrive assumere, scrivendo, un atteggiamento di serietà critica, che porta anche, se necessario alla demolizione, da fare, però, con grande umiltà e con spirito di autentico servizio. Con tale atteggiamento, non moralistico, eglisgombra il terreno dai ruderi di un edificio che, non per colpa sua, si sfascia e crolla come le rovinose torri dei castelli medioevali. Egli, con la sua opera, sviscera col coltello dell’anatomico le intime fibre dei fatti che raccontae mette a nudo i vizi e le difformità morbose, calpestando sotto i piedi tutte le sciocchezze canonizzate, il convenzionalismo ufficiale e svenevole, i titoli”, gli “stemmi”. Egli, ancora, che non è “organico” al sistema, scrivendo degli uomini di Chiesa, strappa con forza la maschera alle finte virtù, alle ipocrisie, svela il sozzume e la menzogna, manomette ciò che è poco conveniente o troppo crudo per alcuni. Nella sua scrittura, particolarmente se cattolico, evita, in tutte le maniere, il ludibrio delle persone, artefici veri o presunti di tale sozzume e di tali menzogne, cercando di non farli diventare vittime. Non permette, inoltre, checi sia chi, prendendo spunto dai suoi scritti, corra dietroai pettegolezzi, il cui uso indiscriminato contiene in sé il rischio di conflitto, ai “si dice”, ai ”mi hanno detto”, al ”ho saputo che”. Certamentespetta ai lettori comprendere gli intendimenti di chi scrive e far notare quanto sembra loro erroneo, esagerato o ingiusto, ma solo se l’errore, l’esagerazione o l’ingiustizia si fanno dimostrabili, sapendo che ciò non sempre avviene immediatamente, ma accade generalmente alla fine di una storia o di una “presenza”. Brecht in Scritti sulla letteratura e sull’artescrive: “Chi ai nostri giorni vuole combattere la menzogna e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l’accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata, l’arte di renderla maneggevole come un’arma; l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Non so se ho queste virtù ma cerco in tutti i modi di averle. La vita, pirandellianamente, la si vive o la si scrive. Lo diceva Sciascia che ha fatto entrambe le cose. Lo scrittore siciliano ha attinto alla realtà per farne opere, nel risultato, non di totale fantasia, di pura rappresentazione, ma di verità. In una canzone, Velazquez, Roberto Vecchioni afferma che “bisogna sempre scrivere e lottare”. Si tratta di un bellissimo accostamento. L’accostamento di due sintagmi, di due concetti squisitamente umani, troppo umani. Scrivere e lottare. Ma la scrittura non è mai orpello, belletto, ma strumento di conoscenza, di lotta appunto, di redenzione se si vuole.È arma, volendo ancora citare Sciascia ‘ppiluttari li puntenti’, arma con la quale combattere ingiustizie, sopraffazioni, imposture. E ancora: “lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità…”, anche quando la verità – quella vera, assoluta, oggettiva – si trova “in fondo a un pozzo”.