
Tutto ha avuto inizio nella stazione ferroviaria di Bayonne. Sceso dal TGV e costretto ad attendere la coincidenza del treno delle 18.06 con destinazione Saint Jean Pied de Port, tappa iniziale del Cammino di Santiago, mi ritrovai fra le mani una copia del quotidiano “Sud Ouest”, ove campeggiava lafoto di una grande grotta, a forma di una “V” capovolta.
La prima sensazione che ebbi, frutto della stanchezza dovuta al viaggio iniziato la sera precedente con un volo Roma-Parigi e successivamente proseguito in treno fin lì, fu quella che la montagna volesse coprirsi dal vento e per far questo avesse sistemato per bene le coperte. Harpéa, questo il nome della grotta, ha stimolato moltissimo la curiosità a tal punto da spingermi ad andare a visitarla.
Giunto a Saint Jean attorno alle 19,30, percorro pochi metri dalla stazione e raggiungo la pensione che avevo prenotato. Quindi mi precipito a comprare qualcosa da mangiare e lì chiedo, farfugliando quattro parole in francese, dove fosse collocato l’ufficio del turismo. La signora così gentile che si trovava alla cassa, tracciò sulla piantina turistica del villaggio (che mi regalò) l’itinerario da percorrere, aggiungendo: “Ici! Place Charles de Gaulle!”.
Dopo la frugale cena, andai un po’ in giro e ho potuto vedere ove era ubicato, l’Office duTourisme. Gironzolai ancora quasi due ore e sembrava che la luce del giorno non volesse finire, nonostante le lancette segnassero le 21.45. Contemplai il fiume Nive dai ponti che lo attraversano, la chiesa parrocchiale, la Rue d’Espagne piena di negozi caratteristici, bar, ristoranti, la villa comunale… e poi, mentre facevo rotta verso casa, sulla piazza principale, a pochi passi dall’Office duTourisme, ebbi la netta percezione di sentire parlare in italiano. Era un gruppo nutrito di ragazzi che stavano sorseggiando un drink seduti al tavolo di un notobar.
Subito pensai di avvicinarmi e chiedere loro qualche informazione. “Buona sera – dico – scusate se disturbo. Mi trovo qui per iniziare il Cammino di Santiago come voi, ma venendo sono rimasto attratto da una bellissima grotta che si trova nei paraggi, Harpéa. Qualcuno sa come potrei arrivarci?”.
Il più anziano della comitiva, un uomo sui quarantacinque anni, mi disse con molta cortesia: “Io conosco il posto perché alcuni anni fa con un gruppo di scout la grotta è stata la tappa finale della nostra Route”. Poi dopo l’ultimo sorso di drink, continuò: “La distanza da percorrere è di circa 10 km. Il percorso è molto impegnativo per la presenza di una densa vegetazione e soprattutto per il rischio di dover camminare per molto tempo da solo, con il pericolo di smarrirsi nell’attraversare alcuni tratti di foresta. Fai molta attenzione anche agli avvoltoi che a certe quote volteggiano in cielo da padroni; vai piano quando incontri i montoni lasciati soli al pascolo, così pure i pottoks, una specie di pony locali, totalmente allo stato brado. Un ultimo consiglio vorrei darti: se pensi di non farcela, torna suoi tuoi passi prima di iniziare l’ascesa del Col d’Orgambide, laddove tutte le strade si incrociano e il cielo è sempre argenteo. In ogni caso, buona fortuna!”.
Ringraziai l’amico e accettai di bere con loro un bicchiere di birra per brindare alla riuscita delle nostre imprese. Mi congedai da loro, essendo molto stanco, e mentre tornavo alla pensione lungo l’Avenue Renaud (la strada che va dritta alla stazione) mi sentivo angosciato dalle difficoltà collegate all’eventuale visita. Harpéa si allontanava sempre più… non sapevo a che santo votarmi quando all’improvviso fui illuminato da una indicazione viaria: Rue SainteEulalie (“Via S. Eulalia”, fin qui ci arrivo), “colei che parla bene, dolcemente”. Mi sono affidato a lei.
Intanto non avevo più il problema di andare a chiedere informazioni all’Office duTourisme.
L’indomani, appena alzato (ed erano già le 09.00), comprai due cartoncini e un rotolo di spago per improvvisarmi uomo-sandwich e chiedere un passaggio. In pochi istanti ho rifatto l’esperienza di Totò e Peppino (“noiovolevam, volevànsavuar l’indirisss…). Dopo aver sudato le sette proverbiali camicie, aiutato da un “mini dictionnaire” scrissi: “Grotte d’Harpéa. C’est moi qui paie l’essence!”.
Così conciato mi sono posizionato nel punto più strategico della piazza principale a fare l’autostop, luogo di passaggio obbligato per andare verso la destinazione.
Il sole cominciava a fiammeggiare, quando dopo circa 20’ di attesa spasmodica, si fermò un attempato signore e mi invitò a salire in macchina. Dopo il mio solenne “Bonjour! Merci, Monsieur!”, mi chiese da dove venivo e, apprendendo che arrivavo dall’Italia insulare, mi disse scandendo le sillabe che aveva ben intuito che non ero del luogo, perché nel cartello avevo scritto due volte la stessa cosa: “Harpéa” è parola basca che indica “la Grotte”. Io, che pensavo di aver fatto bella mostra del mio elementare francese, mi sono sentito annichilito.
Per poter comunicare bene, chiesi al mio soccorritore di parlare “dolcemente” in modo che io potessi comprenderlo. Così capii che stava andando in montagna per comprare il tipico formaggio che i pastori producono sugli alpeggi. Anzi, in un momento compresi chiaramente che lui era originario di quella zona, nella quale un suo cugino viveva adesso con i proventi della produzione derivante dall’allevamento delle pecore.
Lungo i primi tornanti che dolcemente scalavano la montagna, tentai di spiegare a Michel (il nome dell’uomo della provvidenza) che ero rimasto incantato dalla foto di Harpéa e che volevo visitarla a tutti i costi. Lui – sperando di aver inteso bene – diceva che tutta la zona, e particolarmente la Grotta, è molto suggestiva. Sempre con il beneficio della giusta comprensione da parte mia, diceva che c’è una leggenda secondo la quale durante le calde sere d’estate, una fata aveva l’abitudine di fermarsi all’ingresso della Grotta, di sedersi sulla roccia e di lisciare i suoi lunghi capelli con un pettine d’oro che brillava di un luccichio abbagliante con gli ultimi raggi del sole.
La Renault Kangoo, intanto, stava percorrendo l’ultima striscia di asfalto e dopo una leggera salita si cominciavano a vedere le pieghe d’Harpéa. La mia guida era pure un buon intenditore di geologia. Dopo essere scesi dalla macchina, fermi sullo spiazzo da dove si vedeva quasi per intero l’imboccatura della Grotta, mi spiegò che si tratta di una compressione di strati geologici, di forma orizzontale formatisi all’epoca delle pressioni tettoniche.
Lo spettacolo –seppur parziale – era magnifico. Ero estasiato. Michel aggiunse: “È una specie di millefoglie di pietre e minerali, accumulatisi fin dai tempi perduti”.
Il vento si era alzato e le nuvole lasciavano di tanto in tanto apparire dei riquadri di cielo blu, a tal punto da poterlo quasi accarezzare con le mani.
Prima di percorrere il sentiero che portava diritto alla mia destinazione, provai invano di convincere Michel ad accettare un contributo di 20 € per le spese del carburante. Non solo non ne volle sapere, ma aggiunse: “Anche per noi l’ospitalità è un grande valore. Mi ricordo bene della calorosa accoglienza che abbiamo ricevuto in Sicilia quando parecchi anni addietro siamo venuti in tournée con il mio gruppo di ballo. Per me è stato un onore portarti fin qui. Anzi, se vuoi, ci rivediamo qui, alla macchina, fra un’ora. Potrai tornare a Saint Jean con me”.
Mentre scendevo il sentiero ero assalito da due sentimenti di immensa gioia: la felicità per essere riuscito in modo “miracoloso” ad essere giunto lì e la netta sensazione che Harpéa è un gioiello di silenzio, di solitudine e bellezza. Proprio quello che cercavo. Mi sentivo come un pesce immerso nelle acque più cristalline del mare, quelle a lui più congeniali.
Percorsi il sentiero che discende sul crinale della montagna, superai un impetuoso ruscello gorgheggiante di acqua cristallina e mi ritrovai in pochi minuti dinanzi all’ingresso della Grotta. Mi sentii veramente piccolo, un nanetto, tanta era la sproporzione fra la mia altezza e l’imboccatura di Harpéa.
In quel momento nel sito non vi erano persone, né animali. Compresi ugualmente l’uso che oggi si fa di questo particolare luogo: un immenso fienile per i bisogni dei pastori della vallata e contemporaneamente un recinto e un rifugio per il bestiame in caso di tempesta, vista la quantità enorme di precipitazioni atmosferiche della zona.
Già all’esterno si sentiva un odore acre e penetrante di pecora. Spontaneamente mi sono venute in mente le parole di papa Francesco: «Questo vi chiedo: di essere pastori con “l’odore delle pecore”, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini».
Mentre mi accingevo a varcare l’ingresso, facendo molta attenzione a dove poggiavo i piedi, intesi queste parole: “Amara a pecura c’avi a dari a lana”. Capii il senso di quelle parole ma non ne intesi la finalità: perché risuonate proprio lì e in quel momento?Per alcuni minuti mi sembrava di sognare. Era straordinariamente consolante sentire parole nella mia lingua natìa, a circa 2500 km di distanza. Mi ricordai della leggenda della fata che si pettinava i capelli…ma si era nella tarda mattina e non vedevo nulla all’intorno.
Collocai la potente torcia elettrica frontale a led sulla testa e mi inoltrai nella grotta, pervaso da un sentimento di stupore frammisto a paura. Mi vennero in mente le scene di quando, ragazzino di circa 9 anni, assieme ai miei compagni di scuola elementare, entravo nelle viscere della terra per ammirare quel che una volta era stato il ricovero antiaereo degli abitanti del villaggio durante la II guerra mondiale.
Procedevo con calma in modo che le scene si imprimessero bene nella mente eppure con ansia perché non volevo perdere il passaggio di ritorno, offertomi da Michel. Più o meno a metà della profondità della cava sentii di aver urtato qualcosa con i piedi. Al mio orecchio pervenne, distinto, il classico rumore di “rasta” (ceramica). Mi abbassai, illuminai meglio la zona interessata, spostai un po’ la terra che li copriva e raccolsi due piccoli cimeli: una pietra e un coccio di argilla. D’istinto tolsi il terriccio che li copriva e scoprii che vi erano della parole incise su entrambi i ritrovamenti.
Li conservai nella grande sacca centrale del K-way e preso dall’angoscia di non poter fermare il tempo, uscii. Prima di risalire il sentiero, mi fermai appena il tempo necessario per sciacquare i due residui nell’acqua gelida del ruscello. Le mani mi si stavano congelando. Provai ad asciugarli con i fazzolettini di carta e trascrissi, su un foglio del piccolo block-notes che porto sempre con me, le parole che vi erano incise. In effetti non volevo che l’amico Michel, così cortese con me, pensasse che fossi andato fin lì a rubacchiare due banalissimi reperti.
Sulla pietra vi era scritto: “HEMENEHORTZIA DA JONAPESPIKUA”, mentre sul coccio si leggeva: “HEMEN EHORTZIA DA HAREN VICARI TRISTEA”.
Contento per la scoperta, ma timoroso perché non conoscevo il significato delle iscrizioni, mi avviai alla macchina.
Le prime battute fra me e la guida ebbero, inevitabilmente, come oggetto le impressioni sulla Grotta. In un francese sicuro, ma alquanto circoscritto, dicevo quasi come un disco incantato: “Très jolie! Magnifique!”. Quasi a metà strada, non potendo più resistere alla curiosità di quelle parole indecifrabili, le feci leggere a Michel, il quale segnò rispettivamente:“CI GÎT MGR L’ÊVÉQUE”; quindi: “CI GÎT SON PAUVRE VICAIRE”.
Il caro Michel era cambiato all’istante in volto e mi chiese – almeno così capii – dove avessi letto quelle frasi o chi le avesse scritte.
Per tranquillizzarlo gli feci una risata alla “Fracchia”, dalla quale si poteva intuire che avevo capito un bel niente della sua traduzione in francese.
Paralizzato dall’imbarazzo di dover dire come erano andate le cose e geloso di un eventuale mistero collegato ai reperti, dissi che le avevo trascritte da un ritaglio di giornale, casualmente notato per terra, vicino alla Grotta. Una folata improvvisa di vento poi aveva trascinato il testo nell’impetuoso corso d’acqua. Così era sparito.
Fra una battuta e l’altra, finalmente eravamo nuovamente giunti allo stesso posto dove ero stato prelevato circa due ore prima. Lo ringraziai di vero cuore. Lui insistette che accettassi di andare a pranzare a casa sua. Mi dispiacque molto non aver accettato, ma fremevo dalla curiosità di capire nella mia lingua la portata di quelle parole.
Rientrato a casa, avvertii la padrona che mi sarei fermato ancora qualche giorno. Salii i pochi gradini che portavano al monolocale preso in affitto e mi fiondai sul “mini dictionnaire Français-Italien” per cercare di interpretare l’enigma…
(continua)
ongi etorri