Gv 6,51-58
In quel tempo, Gesù disse alla folle: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?". Gesù disse loro: "In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".
di Ettore Sentimentale
Siamo ancora all’interno del discorso sul “pane di vita” e S. Giovanni insiste con un linguaggio molto forte – quasi a scandalizzare – sulla necessità di alimentare la comunione con Gesù. Solo così potremo sperimentare in noi la Sua vita autentica: “Chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue ha la vita eterna”.
In questa pericope, tuttavia, l’evangelista utilizza un linguaggio “tecnico” sul quale è necessario soffermarci, per evitare di stravolgere il significato delle parole. A tal proposito notiamo subito una specificità del lessico giovanneo. Mentre i sinottici (vedi racconti dell’istituzione, per esempio Mc 14, 22ss) parlano di “corpo” e “sangue”, Giovanni usa il sostantivo “carne”. Un termine a lui molto familiare, basti pensare al prologo ove scrive: “E il Verbo si fece carne” (1,14), descrivendo così la condivisione da parte della “Parola” della condizione umana.
Un’altra sottolineatura tipicamente giovannea, a differenza della tradizione sinottica che evidenzia l’Eucaristia “data per molti” (poi divenuta “per tutti”, a livello teologico c’è un acceso dibattito attorno al “pro multis”), si concretizza attorno alla portata universalistica:“per la vita del mondo”.
Il passo più difficile di questa pericope è costituito dallo “scandalo” dei giudei che aspramente si chiedono: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.
Anche qui, per chi ha una certa dimestichezza con il quarto vangelo, non vi sono difficoltà insormontabili perché sa che in precedenza si trova la stessa espressione quando Gesù parla con Nicodemo sulla possibilità di rinascere dall’alto. In quell’occasione il dottore delle legge si chiede perplesso: “Come può accadere questo?” (Gv 3,9).
Anche nel nostro caso, bisogna comprendere la portata simbolica della parole di Gesù, che rinviano a un significato che va oltre l’apparenza, senza tuttavia negare la portata reale del discorso.
Se entriamo nel vivo della questione fra Gesù e i giudei, dalla risposta del Maestro si evince chiaramente che mentre non spiega il “come” lui stesso “può dare da mangiare”, pone tuttavia la condizione necessaria (“se”): mangiare la sua carne e bere il suo sangue per avere la vita eterna e la risurrezione nell’ultimo giorno.
Vorrei scendere nel concreto (spero non nella banalità), per meglio spiegare quanto dice S. Giovanni, perché c’è il rischio che questo linguaggio (in buona parte imparato durante la preparazione alla prima comunione) non abbia alcun impatto su di noi. Al catechismo si insegna che al momento della comunione, Cristo si fa presente per la grazia del sacramento dell’Eucaristia. Non ci siamo chiesti, però, come aprirci a Lui affinché possa rendere la nostra vita “veramente” (la sua carne è “vero cibo” e il suo sangue “vera bevanda”) più “commestibile”, più evangelica.
Se mangiare Cristo nel pane consacrato da una parte esige una fede immensa, dall’altra ci obbliga a prolungare questa “immanenza reciproca” (il “rimanere” Suo in noi e il nostro in Lui) in esperienze vitali nelle quali al centro si trova la interiorizzazione dei suoi sentimenti, che accendono in noi il desiderio di vivere come Lui.