
Prof. Andrea Filloramo, la tua intervista è stata largamente approvata dai lettori di IMGPress. Non avevo dubbi. Ciò mi invita a continuarla, dato che alcune tematiche trattate nei tuoi articoli meritano degli approfondimenti. Se mi consenti procediamo con altre domande.
Certamente. Possiamo iniziare la seconda parte dell’intervista.
Per dare continuità fra la prima e la seconda parte dell’intervista, parto dall’ultima tua osservazione: “Se si chiede all’arcivescovo più trasparenza, ai preti si chiede più coraggio ad affrontare di petto le situazioni”. Vuoi approfondire o almeno commentare questa tua asserzione”?
Dici bene: la mia è stata un’asserzione, cioè un’affermazione energica e convinta, che necessariamente deve essere spiegata. Essa contiene due soggetti: l’arcivescovo e i preti. L’arcivescovo che mancherebbedi trasparenza. Gli altri, cioè i preti, che mancherebbero di coraggio nelle proprie azioni. Trasparenza e coraggio che, in un rapporto normale fra soggetti che devono interagire fra loro, devono necessariamente coesistere. Cominciamo con la trasparenza. Sappiamo tutti che esiste, al di là del Codice di diritto Canonico, una disciplina posta da un Codice di comportamento non scritto, che tocca tutti gli aspetti del rapporto che il vescovo, in quanto non solo pastore di una diocesi, ma anche amministratore della diocesi e datore atipico di lavoro, ha con i suoi preti e con i fedeli, che potrebbero dare adito ad azioni illecite, scorrette, non giuste. L’obiettivo, quindi, che un vescovo si deve porre è quello della massima correttezza e integrità. Il venir meno a tali norme per lo più etiche, denuncerebbe il fallimento di tutta l’attività pastorale.Chiunque comprende che non voglio dare lezioni di eticità ad un vescovo. Non ho questo compito ma, avendo attentamente seguito, il “tormento” di tanti preti, stufi di certe situazioni, sento il dovere di denunciare attraverso l’unico strumento che ho, che è lo “scrivere”. Continuiamo con il coraggio. Sarebbe non solo diritto ma anche dovere dei preti alzare la voce, assumersi la responsabilità di chiedere chiarimenti, di aiutare il vescovo che, in quanto persona umana può incorrere in errore, ma, purtroppo, questo non avviene.
“Questo non avviene”, a tuo parere, perché?
Sarebbe per me molto facile risponderti: ciò non avviene perché i pretisono vigliacchi. Ma non è così. Non tutti i preti possono essere accusati di vigliaccheria. Non si tratta di un difetto nella personalità di individui che li portano ad adottare atteggiamenti imbarazzanti e riprovevoli nei confronti di certe situazioni, come si cerca di trasporre nella maggior parte delle società, per non dire in tutte. La vigliaccheria è un sentimento che vive l’individuo, di comune accordo con la sua lista di giudizi, di valutazioni e comportamenti adeguati, che si è costruito durante la sua vita e che riceve le influenze della società a cui appartiene. Questo sentimento torturerà la persona in base esclusivamente alla sua sensibilità. In caso contrario, il suo inconscio s’incaricherà di alloggiarlo al suo interno, ma continuerà, stando fisso lì, a far soffrire la vittima in una forma o in un’altra. Ma in realtà, si tratta di un sostantivo astratto e inesistente, fino al momento in cui l’individuo gli dà vita. Non si tratterà di vigliaccheria perché la determinano gli altri. Neanche lo sarà per avere sostenuto un atteggiamento determinato di fronte al fatto in questione. Stando a questa definizione, quindi, non tutti i preti sono vigliacchi se non denunciano quelli che ritengono gli errori del proprio vescovo.
C’è, però, una malattia, che secondo papa Francesco, colpisce i preti e vieta loro di denunciare i propri vescovi.
E’ proprio così. Si tratta secondo Papa Francesco della “malattia di divinizzare i capi: è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio. Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo”.
Si tratta, allora, di paura, cioè i preti messinesi hanno paura del loro vescovo.
Per alcuni, sicuramente! Per questi la paura è un tendenziale atteggiamento di remissione nei confronti dei superiori. Si ha paura di essere spostati di parrocchia,di perdere la stima del vescovo, si ha paura dei propri pensieri perché si pensa di essere in un certo qual modo “inferiori” e, invece, con il silenzio si agisce in modo negativo rispetto a se stessi e rispetto agli altri. Si ha paura perché si viene meno a un precetto educativo acquisito durante gli anni di seminario che imponeva il rispetto del vescovo in quanto “persona sacra”. Intantoun sacerdote scrive. “Siamo soli, tremendamente soli e paurosamente divisi. Dei confratelli non ci fidiamo e ci evitiamo a vicenda, dal vescovo stiamo lontani perché siamo convinti di non essere compresi e amati: lo sentiamo assente dai nostri tormenti e dai nostri travagli d’ogni giorno”. Aristotele dice che le persone che non si sentono amate provano il bisogno di farsi ammirare. Se non si è né amati né ammirati, è come se si morisse. L’essere umano ha bisogno degli occhi degli altri, occhi che apprezzano, che amano, che ammirano, che confermano. Se quegli occhi non ci sono, se quegli occhi esprimono disprezzo, paura o rifiuto, se quegli occhi non lo guardano (come se non esistesse), allora per lui è il vuoto, la depressione. Faremmo qualsiasi cosa pur di trovare uno sguardo che ci approvi e ci valorizzi.
Sei riuscito a dare un’immagine precisa dei preti messinesi e del rapporto che essi hanno con il loro vescovo. Del resto ritengo che questo sia il motivo dei tanti tuoi articoli, in cui è centrale la figura del vescovo.
E’ proprio così. L’imput a scrivere del vescovo di Messina, come sempre ho detto, mi è stato dato dai preti miei amici che denunciavano il loro disagio, fatto di crisi di identità personale, di inefficacia di ruolo e di presenza sociale, ma anche di paura della solitudine, della vecchiaia, della svalutazione del proprio operato da parte del loro vescovo dal quale alcuni si sentivano “abbandonati”, anzi considerati come “limoni spremuti da buttare nella pattumiera”. Mi sono subito interessato ai rapporti di tutti con il vescovo e ho subito notato che erano quasi inesistenti. In seguito, ascoltando le loro lagnanze ho cercato comprendere i motivi. A cascata, la mia attenzione poi si è fermata su tanti episodi segnalatimi che avevano come protagonista il vescovo, fino a giungere ad alcuni casi “eclatanti” dei quali tanto si parlava, tanto si chiacchierava, tanto si mormorava ma che si voleva tenere ben nascosti per paura di ritorsioni. A questi casi sono giunto e di questi casi, come ho dimostrato nella prima parte di questa intervista ho la relativa documentazione, che ovviamente è in possesso anche di altri. E’ mia cura non fare intervenire la stampa. E’ lecito pensare che, prima o dopo, il vescovo di Messina farà chiarezza del suo operato. Non si tratta di un “redderationem”, non abbiamo il diritto di chiederlo, ma di un atto di lealtà nei confronti del clero e di tutta la diocesi.
Ma credi tu veramente a questo atto di lealtà?
Sono ancora ottimista, come lo sono stato sempre. Rammento una frasedel Cardinale di Retz, storico e uomo politico (1613-1679) : “Ci si lascia imbrogliare più spesso per troppa diffidenza che per troppafiducia”. Se poi vien meno anche la fiducia, ci sarà sicuramente papa Francesco, che sa come fare per affrontare i problemi dei preti e delle diocesi in difficoltà.