A seguito di tutte le vicende collegate al decreto “Salvabanche”, molti risparmiatori si stanno domandando se la propria banca sia solida o meno. Iniziamo col dire che non dovrebbe essere un normale correntista a doversi occupare di parametri di solidità di un istituto di credito. Esistono, o dovrebbero esistere, le autorità di vigilanza che sono preposte a questo scopo. Le vicende che hanno riguardato le famose quattro banche coinvolte nel “Salvabanche” non sono accadute perché le autorità di vigilanza non fossero al corrente della gravità della situazione patrimoniale delle banche, ma perché per mesi e mesi hanno provato a salvarle coinvolgendo il fondo interbancario di tutela dei depositi ed invece le autorità europee hanno rifiutato di dare il consenso, e alla fine hanno preteso che ci fosse il coinvolgimento dei privati.
Scottati da ciò che è successo, molti clienti delle banche cercano di capire come fare a verificare, da soli, se una banca è solida. Diamo, quindi, qualche indicazione di massima per cercare di valutare lo stato di salute di una banca, ma poi i suggerimenti più importanti saranno quelli non tecnici alla fine dell’articolo.
Facciamoci questa domanda: perché una banca può andare in difficoltà economiche?
Si possono individuare tre ragioni fondamentali le quali possono anche concorrere:
1. eccesso di sofferenze bancarie: in pratica la banca ha prestato soldi a troppe persone che non li hanno restituiti; 2. perdite su operazioni finanziarie proprie: in pratica la banca ha “giocato” troppo d’azzardo con le diavolerie finanziarie, direttamente o attraverso aziende collegate (c.d. shadow banking o banche ombra); 3. una corsa agli sportelli: neppure la più solida delle banche può restituire tutti soldi nei conti correnti qualora fossero chiesti tutti insieme, ma questi problemi, oggi come oggi, vengono gestiti da norme speciali che creano uno scudo contro il panico generalizzato.
Oggi va molto di moda pubblicare il CET1 (*) (Common Equity Tier 1) che misura il rapporto fra i mezzi propri della banca e gli impieghi ponderati per il rischio. Senza dubbio è un parametro importante. E’ preferibile che la propria banca abbia un CET1 superiore al 10%, come minimo, ma non è l’unico parametro da valutare e forse non è neanche il più importante, specialmente in Italia. Il nostro Paese, infatti, soffre di un problema enorme che sono i crediti in sofferenza. Mediamente, le nostre banche hanno circa il 16% dei crediti che sono in una situazione di sofferenza o proprio d’incaglio. Una cifra difficilmente sostenibile alla lunga.
Anche su questo punto, da molti mesi, ormai, si vocifera di un provvedimento del governo che avrebbe dovuto fare una sorta di bad bank nazionale per ripulire i bilanci delle banche da questo fardello.
Si tratta, forse, del singolo provvedimento economico più rilevante che il governo possa fare per dare impulso all’economia della nostra nazione, ma – per ragioni che sono ancora una volta riconducibili a ostacoli provenienti dalle autorità europee – non vede mai la luce.
Quando i crediti in sofferenza di una banca hanno un valore più alto del capitale della banca stessa, questo è un segnale chiaro, a prescindere dal CET1, che la banca non se la sta passando affatto bene e, certamente, l’acquisto di obbligazioni di quella banca, tanto più se subordinate, nel nuovo contesto di normative sul bail-in, non sarebbe una scelta intelligente.
Questa è una delle ragioni, ad esempio, per la quale MPS pur avendo – dopo la ricapitalizzazione – un discreto CET1 (superiore a quello di banche decisamente più solide come Unicredit) non si può dire certamente una banca risanata, perché ha comunque crediti deteriorati lordi pari al 30%! Con le rettifiche scendiamo a circa il 20%, ma stiamo parlando sempre di numeri molto importanti.
Un dato da considerare per valutare le sofferenze sono anche gli accantonamenti che, negli anni, la banca ha effettuato per coprire queste sofferenze. Su questo punto ogni banca adotta una sua strategia. Più una banca ha una politica di bilancio prudenziale e più realizza accantonamenti che possono essere anche superiori al 50% dei crediti in sofferenza. Banche meno solide, fanno politiche di accantonamento più blande. In questo modo il CET1 appare più “solido”, ma le sofferenze sono meno coperte.
C’è poi tutto il capito relativo alle attività finanziari in proprio. Le banche italiane, tradizionalmente, sono state sempre un po’ più prudenti su questo tema, ma non sono mancati casi nei quali i bilanci dei alcune banche hanno risentito fortemente di operazioni finanziarie poco commendevoli, spesso non solo a causa d’incompetenza, ma talvolta anche a causa di interessi personali. E’ evidente che, su questo lato, poco possono gli indicatori di bilancio che lavorano – chiaramente – sui numeri noti, non sulle magagne tenute ben nascoste.
In pratica, come si è capito, non è affatto semplice, per un comune cliente della banca, valutarne l’affidabilità. Ricordiamo che i correntisti sotto 100.000 euro ad intestatario, non rischiano un centesimo dei propri depositi. Diverso è il discorso per le obbligazioni bancarie il cui acquisto è bene valutare con attenzione come per tutti gli investimenti finanziari. La prima regola è acquistare le cose che si comprendono e si conoscono e non fidarsi mai di quello che ci dice il venditore di turno, ma leggersi con attenzione i documenti informativi.
Se non si capiscono, semplicemente evitare di investire, non ce l’ha ordinato il dottore e non è obbligatorio investire in strumenti finanziari.
Le banche, spesso, amano ripetere che il rapporto banca-cliente è un rapporto “basato sulla fiducia”. Niente di più sbagliato! Dovrebbe essere basato sulla trasparenza, correttezza e diligenza. Non sulla fiducia! La banca non è nient’altro che un’impresa il cui scopo e far profitti e fa profitti togliendo i soldi dalle tasche dei propri clienti. Questo non dobbiamo mai dimenticarcelo.
Se una banca ci formula qualsiasi proposta, la principale ragione di questo interesse non è certo la cura dei nostri interessi, ma il fatto che la banca che formula la proposta ha tutto l’interesse a che il cliente l’accetti e, nel 99% dei casi, se conviene alla banca non conviene al cliente.
Questi sono concetti semplici, quanto basilari. Una volta ben compresi questi aspetti, diventerà anche meno pressante tutto questo interesse sulla solidità delle banche perché basterà non commettere la sciocchezza di avere più di 100 mila euro liquidi sul conto corrente e basterà non acquistare obbligazioni bancarie che non sappiamo valutare.
(*) Poiché questo sito si rivolge ad un pubblico di comuni risparmiatori, non sarebbe questa la sede per fare una disquisizione sul sistema globale di capitalizzazione di una banca. Basti quindi, qui, accennare che la capitalizzazione delle banche, solitamente, si suddivide in tre livelli o strati (tier).
Il primo livello, tier 1, è composto dal capitale versato, le riserve e gli utili non distribuiti. Questo è il grosso, ma ci sono anche degli strumenti di capitale ibridi, che sono un po’ obbligazioni ed un po’ azioni e che prevedono la possibilità di sospendere il pagamento delle cedole in certe condizioni di scarsa patrimonializzazione della banca e perfino di non rimborsare parte del capitale. Alcune di queste obbligazioni vengono chiamate “perpetual” perché hanno scadenze lunghissime (anche 50 anni). Poi esistono altri strumenti ibridi non inseriti nel tier 1 perché, pur non essendo semplici obbligazioni, non prevedono la possibilità di non pagare cedole e/o capitale senza far cadere in default la banca, questi strumenti vengono inseriti negli strati di capitali inferiori (tier 2 e 3 a secondo della loro rischiosità). Un tempo, prima che l’Europa – per semplificare – decidesse, in pratica, che tutti gli obbligazionisti subordinati dovessero partecipare all’eventuale “salvataggio” delle banche in difficoltà, era importante capire il livello di subordinazione… oggi questo vale molto meno e per un investitore non esperto, la cosa più saggia da fare è evitare totalmente le obbligazioni subordinate. Per chi, invece, ama il rischio ed ha molto tempo da investire nella propria formazione finanziaria, questi strumenti di rischio possono – talvolta -presentare rapporti di rischio/rendimento da valutare.
Alessandro Pedone, responsabile Aduc per la Tutela del Risparmio