di ANDREA FILLORAMO
Email ricevuta giorno 30/01/2016 alle ore 14,22 da una Signora che si firma E.P, che fra l’atro mi scrive:
“…Per anni ho atteso che il Papa abolisse l’assurdo celibato con il quale proibisce ai preti di sposarsi, fino a quando…………”
RISPOSTA
Cara Signora, credo che lei comprenda facilmente che IMGPress non può trattare problemi personali, che possono essere trattati in altre sedi e con altre persone. Io mi ritengo di essere, nel giornale, un divulgatore culturale, che tratta temi e tematiche di materie di cui sono o mi ritengo competente. Traggo, quindi, dalla sua gentile email un argomento, che del resto avevo già trattato, in un’intervista, in una delle mie prime collaborazioni con questo Foglio Elettronico. Si tratta del celibato ecclesiastico. Spero che possa esserle utile nel porgerle degli elementi utili ad affrontare quelli che sono o ritengo che siano i suoi problemi.
Molti pensano che il celibato dei preti, valido per la Chiesa Cattolica di rito latino e non per le Chiese orientali, sia un obbligo abrogabile in forza e in virtù di un semplice decreto del papa e possa, quindi, diventare una scelta volontaria e facoltativa. Anche se teoricamente è così, praticamente è di difficile o impossibile attuazione. Il celibato dei preti, infatti, ha una lunga e tormentata storia, la cui fine non è ancora assolutamente prevedibile anche se auspicabile. Nessuno, quindi, pensi che a breve, ci sarà il classico “colpo di spugna” dell’abrogazione. Cerchiamo, quindi, di tracciare la sua storia. Non è necessario prolungarsi per dimostrare che il celibato nella Sacra Scrittura non ha nulla a che fare con il sacerdozio. Non c’è, infatti, un solo rigo che colleghi il celibato e il sacerdozio, sia nel Primo sia nel Nuovo testamento, tant’è che in Israele i sacerdoti e lo stesso Sommo Sacerdote erano sposati e nel cristianesimo dei primi due secoli il celibato non è presentato come una condizione più cristiana di altre o come un valore speciale, degno di essere perseguito in sé e per sé, e questo è tanto più singolare se si pensa che Gesù e l’apostolo Paolo erano entrambi celibi. Qualcuno pensa che S.Paolo (1 Corinzi 7, 7) abbia fatto diventare il celibato un carisma parallelo al matrimonio, ma mi pongo la domanda: “se è così, perché egli non ha inserito il celibato nella lista delle «opere» o dei «frutti» dello Spirito? Ho l’impressione che molto spesso la parola di Dio viene mortificata da chi vuole ridurla a semplice “parola umana” dei teologi. Ciò vale anche per quello che Gesù dice sugli eunuchi in Matteo 19,12, «che si son fatti tali da sé a cagione del regno dei cieli» e Gesù aggiunge: «Chi è in grado di farlo, lo faccia». Chiunque comprende che Gesù, con queste parole non si rivolge ai suoi ministri, non dà degli ordini e neppure una raccomandazione, tant’è che conclude dicendo «Chi è in grado di farlo, lo faccia» vuol dire che è una libera scelta di ciascuno, ma nessuno è obbligato a farla. Qualcuno ancora volendo dare un supporto biblico al celibato, si fa soccorrere dalla parola dell’apostolo Paolo, che essendo senza moglie, a differenza di tutti gli altri apostoli che erano sposati, rivolgendosi non ai ministri ma a tutti i cristiani, dice «vorrei che tutti gli uomini fossero come me» (1 Corinzi 7, 7). Cerchiamo di essere chiari: S. Paolo era ossessionato dalla fine del mondo che riteneva imminente, e, quindi fa una semplice constatazione. “Che senso avrebbe avuto creare una famiglia, quando il mondo sta per finire?”. Quindi tutti “si astengano dalle loro mogli e non generino figli”? Che “tutti attendano la parusia di Cristo come l’attendo io”. In altre parole, dinnanzi ad un mondo che sta per finire è necessario vivere come se non fossero sposati, pur essendolo. Quando, allora, possiamo rintracciare l’inizio della storia del celibato ecclesiastico? Dobbiamo fare riferimento al Sinodo di Elvira degli anni 300 e 303, quando nel canone trentatrèleggiamo: «Si è deciso globalmente il seguente divieto che riguarda vescovi, presbiteri e diaconi, come tutti i chierici che esercitano un ministero: si astengano dalle loro mogli e non generino figli; chi lo avrà fatto dovrà essere allontanato dallo stato clericale». Ritengo che tale canone è nato dall’influsso delle correnti misogenistiche,che professavano un atteggiamento di avversione per le donne, o di repulsione, da parte dell’uomo, verso i rapporti sessuali con donne, correntiestranee al Vangelo, mentre fiorivano anche la verginità carismatica e il monachesimo. Nel secolo seguente subentrò pure la socializzazione del ministero sacerdotale, per cui anche per purità rituale, secondo le prescrizioni del Concilio di Elvira verso il 306 o addirittura verso il 380, nella Chiesa greca e in quella latina chierici e laici si astenevano dai rapporti sessuali nei giorni della Celebrazione Eucaristica. Sappiamo che il celibato previsto dal canone 33 del Sinodo di Elvira, testè citato, non fu dappertutto osservato.Agostino, favorevole al celibato, confida in una lettera di conoscere più di 300 vescovi sposati. E’ lecito, a questo punto, dato il riferimento a S.Agostino, favorevole del celibato, evidenziare il fatto che il teologo di Ippona è da considerare il corifeo di tutti i sessuofobi. Cogliendo “fior da fiore” dall’immensa sua produzione, infatti, leggiamo: “Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca l’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio” (Agostino, Soliloquia 1:10, Opera Omnia III-1, Roma 1970, 408).“Io non vedo per quale aiuto la donna sia stata fatta per l’uomo, se si esclude il fine della procreazione. Perché tuttavia se si esclude questo scopo io non lo capisco: se la donna non è stata data come aiuto all’uomo per generare figli, per quale altro aiuto sarebbe stata data? Forse perché insieme dovessero lavorare la terra? Se per questo scopo fosse stato necessario un aiuto, allora l’uomo sarebbe stato un aiuto migliore per l’uomo. Lo stesso vale per la consolazione nella solitudine. Quanto è più gradito per la vita e la consolazione che due amici abitano insieme piuttosto che un uomo e una donna abitino uno accanto all’altra”.(De Genesi ad litteram 9: 5, Op. Om. IX-2, Roma 1989, 458).Si può dire, a grandi linee, che nel primo millennio, nella chiesa d’Occidente, il celibato fu praticato a macchia di leopardo, mentre nella chiesa d’Oriente non fu mai praticato dai sacerdoti, ma solo dai vescovi, da Giustiniano I (527-565). Dobbiamo arrivare, però, a Gregorio VII (1073-1085) per ristabilire con misure drastiche l’osservanza del celibato, dichiarando nulli tutti gli atti liturgici e le celebrazioni compiute da preti sposati. In una sua lettera Gregorio scrisse che «la chiesa non può essere liberata dall’asservimento ai laici [cioè al potere politico], se i membri del clero non sono liberati dalle mogli».Finalmente, quindi, un’ondata di moralità si è abbattuta sul clero cattolico? Niente affatto! Effettivamente le mogli scomparvero, ma non le concubine, che si moltiplicarono. Noi non abbiamo un’idea, oggi, del degrado morale in cui viveva in quel tempo buona parte del clero, a tutti i livelli: il cattivo esempio, allora, veniva dall’alto. Il concubinato era condannato (e anzi tassato con un ingegnoso sistema di multe), ma largamente diffuso, con grande scandalo dei fedeli. A questa situazione porrà energico rimedio il Concilio di Trento, che propose, in polemica con la Riforma, il nesso tra celibato e sacerdozio, dichiarando «anatema» sia chi afferma sia i membri del clero, si possono sposare, sia chi sostiene che il matrimonio sia da preferirsi alla verginità o al celibato (sessione 24 dell’11 novembre 1563).Sembra che da allora la situazione si è cristallizzata fino ai nostri giorni.Il Vaticano II e il magistero papale successivo non insistono più tanto sulla superiorità del celibato rispetto al matrimonio, ma continuano a dichiarare irrinunciabile il celibato dei preti.Su che base? Quali sono le ragioni addotte a sostegno del celibato?Le ragioni addotte a sostegno del celibato sono tante. Eccone alcune: L’idea antica, assurda, oggi incomprensibile, di origine pagana, che la sessualità sia in qualche modo peccaminosa e renda chi la pratica temporaneamente impuro, e quindi non idoneo al «servizio dell’altare». Il modello di vita monastico esercitò senza dubbio un forte influsso sul clero secolare, che volle adottarne alcune modalità. L’idea che il celibato consenta una più totale consacrazione a Dio e al prossimo. L’idea (oggi meno rilevata che in passato) che la condizione di verginità sia superiore alla condizione coniugale. Il fatto che un clero celibe è più facile da gestire e utilizzare che un clero con famiglia e che il celibe, non avendo figli, non può lasciare loro in eredità i «benefici ecclesiastici», e quindi non costituisce una ipotetica minaccia per il patrimonio della chiesa. Non c’è qui lo spazio per discutere ciascuna di queste ragioni: il discorso sarebbe lungo. Solo l’ultima, a mio parere, ha un certo fondamento. Bonhoeffer, a proposito della castità, scrive nelle Lettere a un amico: «L’essenziale della castità non è la rinuncia al piacere, ma l’orientamento totale della vita in vista di un fine».Detto questo, va da sé, quindi, che il celibato è possibile come scelta di vita cristiana, ma riguarda ogni cristiano e non c’entra con la questione del ministero.Il celibato come legge imposta al clero è invece, secondo me, semplicemente iniqua e priva di fondamento evangelico. «Ciascuno ha il suo dono da Dio» dice l’apostolo Paolo. Quello che conta, alla fine, non è essere celibi o sposati, ma come lo si è. È sul «come» che tutto si decide. Riprendendo un concetto solo accennato, diciamo che il celibato imposto al clero nel passato è stato imposto per ragioni pratiche: evitare che i problemi ereditari interferissero nell’amministrazione del patrimonio ecclesiastico. Fu quindi uno strumento di potere usato per rinsaldare i vincoli della disciplina ecclesiastica. Ma divenne anche un principio d’identità, il segno distintivo di una diversità su cui la Chiesa avrebbe costruito la sua reputazione. È questa probabilmente la ragione per cui la Chiesa oggi, nonostante alcune aperture del Concilio Vaticano II o di accenni fatti da Papa Francesco, non riesce ad affrontare spregiudicatamente il problema del celibato ecclesiastico. Quando una misura storicamente e pragmaticamente giustificata diventa parte integrante dell’identità di un’istituzione o di un gruppo sociale, il cambiamento è molto difficile. Se vi sarà, com’è probabile, occorrerà attendere molto tempo ancora. L’abolizione del celibato obbligherebbe la chiesa ad una totale destrutturazione del suo clero, che sarebbe obbligato a non dipendere più economicamente dalla Chiesa, che non si può fare carico del mantenimento dei preti e delle loro famiglie. Con l’abolizione del celibato, i preti dovrebbero lavorare e procurarsi da vivere per sé e per i loro figli, dovrebbero essere educati al matrimonio, a fare esperienze sentimentali, a raggiungere cioè quella maturità umana che i seminari non garantiscono né possono garantire. Avremmo forse dei preti migliori, più comprensivi, meno dommatici, meno depressi, non più predicatori indefessi del “non fare”, del ”non dire”, meno “curiosi” di “sapere che cosa succede”, ma sicuramente con un cuore più aperto verso chi ha bisogno non solo di una parola di conforto ma di una carezza fatta da una mano di qualcuno che non teme di essere frainteso quando manifesta il suo bisogno d’amore.