di ANDREA FILLORAMO
Sarebbe veramente allarmante se il clero giovane messinese fosse come è descritto da un prete di una certa età, mio vecchio amico, che da tempo mi scrive. Sintetizzo, parafrasando il suo pensiero contenuto in diverse email: i preti giovani per lui sono immobili, apatici, formalistici, chiusi tra le quattro mura di una religione asettica, comoda e accomodante, ritualistica, come fuochi spenti sotto la cenere del fideismo individualista e di un pragmatismo insano, lontano dal mondo moderno o, meglio, dal mondo esistenziale. Vogliono solo apparire, ma sono allettanti contenitori vuoti. Mi chiedo se quanto quel prete dice a causa del presunto trattamento di favore riservato ai preti giovani dal vescovo precedente, ma comprensibile soltanto per il divario generazionale, è riferibile solo ai preti giovani e non, in buona parte, ai preti di qualunque età della sua diocesi di appartenenza e, forse, ai preti in generale. Tanti, a mio parere, infatti, sono i preti che io conosco senza alcuna progettualità pastorale. Essi accettano acriticamente, senza batter ciglio il paradigma sempre astratto che il vescovo predispone all’inizio dell’anno pastorale, materiale cartaceo, linee generali, che tutti leggono, al quale però rispondono molto spesso con il menefreghismo, con l’apatia che si accompagna sempre all’ipocrisia. A tanti preti non viene in mente che il vero loro compito di oggi sta nel risvegliare la coscienza dei fedeli, nel togliere questi dal peso secolare di un’immagine di Chiesa ritualistica, con forti tinte di sincretismo magico-religioso, tipico di una religiosità popolare confusa, che mescola preghiera e magia senza riferimento alla fede autenticamente cristiana. Dovrebbe destare in loro particolare preoccupazione constatare la diffusione di una pseudo-pastorale, dove al di là dell’acqua benedetta, di statue di Santi e Madonne, di feste patronali, di messe domenicali non c’è nient’altro…Che si superi finalmente l’immagine della Chiesa rigidamente e disumanamente dogmatica e moralistica, alla quale i preti per primi non credono. Quanto tempo, infatti, essi impiegano nel farli obbedire, senza educarli, senza farli pensare con la loro testa. È questo sicuramente un cammino, che tutti, giovani e vecchi preti devono percorrere, che comporta “un passaggio da una prassi pastorale pensata per istruire, per insegnare verità (da apprendere), per illustrare precetti e norme (da eseguire fedelmente) ad una prassi che pone al proprio centro la formazione di coscienze mature, di persone capaci di assumersi le proprie responsabilità, di camminare insieme agli altri con le proprie gambe e di ragionare con la propria testa, di operare scelte di fondo umanizzanti e liberanti”. Da qui l’importanza delle relazioni significative tra le persone, dell’attenzione all’uomo nella sua concretezza, nelle diverse situazioni spesso di sofferenza. Si tratta di una svolta antropologica che la pastorale deve operare. Nessuno pensi che, in tal modo, si vuole cancellare il trascendente; si rifletta sul fatto che l’uomo non incontra mai il trascendente, incontra sempre l’immanente perché egli fa strutturalmente parte del problema che vorrebbe risolvere, quello del senso della vita, e facendone strutturalmente parte, non vede mai le cose da un punto di vista esterno e trascendente ma sempre dall’interno. La rivelazione di Dio avviene così, dentro la storia umana e in modo umano, tramite eventi umani: se vogliamo vedere Dio dobbiamo guardare l’uomo. Dio si incontra nell’uomo.