Studiare la Storia non è solo accademia, a volte può essere utile per il presente. Anzi forse è valida la frase che ripete spesso il pensatore cattolico e fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni: “Chi sbaglia Storia, sbaglia politica”. E un libro che potrebbe aiutare il mondo economico e politico in Italia, è sicuramente il documentato testo dell’economista Vito Tanzi, “Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia”, (Grantorino libri S.r.l. 2012) Il professore Vito Tanzi in questo volumetto spiega che il piccolo Regno di Sardegna nel 1860 fu salvato dal fallimento grazie all’unificazione dell’Italia. Infatti i dirigenti piemontesi trasferirono tutti i propri debiti al nuovo Regno italico. Infatti, in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, il maggior quotidiano economico nazionale, Il Sole 24 Ore di Milano, commentando le cifre dell’indebitamento del Regno di Sardegna nel 1861, osserva che “[…] è stato il Regno dei Savoia a portare nella nascente Italia la cultura del debito facile, della finanza allegra”. Successivamente aggiunge: “Si può trarre la conclusione che per il Regno di Sardegna la creazione di un’Italia unita fosse anche un modo per aggiustare i conti”.(Morya Longo, Nord “padre” del debito pubblico, in Sole 14 Ore, Milano, 17.3.2011)
Praticamente alla data dell’unificazione, il Regno di Sardegna aveva un debito pubblico pari al 67 per cento del Prodotto Interno Lordo, per di più dilatatosi del 565 per cento fra il 1847 e il 1859 a causa dei preparativi bellici, nonostante l’imposizione di nuove tasse, la vendita di beni demaniali e l’acquisizione forzata delle proprietà ecclesiastiche. Questi conti sono stati aggiustati incamerando le ricchezze del reame più ricco di allora, il Regno delle due Sicilie dei borboni, che invece aveva un debito pari al 29,6 per cento del PIL e un bilancio rigoroso. E’ di questo parere, il deputato conservatore e cattolico irlandese John Pope Hennessy (1834-1891), che nel Parlamento britannico, nella seduta del 4 marzo 1861, accusava il suo governo di aver favorito e finanziato il partito rivoluzionario nel Mezzogiorno d’Italia. Infatti si può leggere, “la conquista piemontese della Penisola ispirata dai poco nobili motivi di risolvere la grave crisi finanziaria che attanagliava il regno di Vittorio Emanuele [di Savoia 1820-1878)] con l’acquisizione delle risorse degli altri Stati italiani che si trovavano tutti in una più florida situazione economica” .
Vito Tanzi, è stato professore di economia e di finanza pubblica in varie università americane, direttore del Fiscal Affairs Department del Fondo Monetario Internazionale, dal 1981 al 2000, autore di una ventina di libri e centinaia di articoli in riviste di economia, sostiene queste tesi avendo consultato numerosi testi e documenti come si ricava dalla ricca bibliografia del suo libro Italica.
Il libro ampiamente recensito qualche anno fa da Francesco Pappalardo, che a proposito scrive:“Anche l’economista di fama internazionale Vito Tanzi ritiene che la costruzione dell’unità europea stia incontrando difficoltà simili a quelle affrontate centocinquant’anni fa nella penisola italiana, dove gli stati preesistenti, caratterizzati da leggi e da sistemi economici e tributari molto differenti, sono stati messi insieme a tavolino e trasformati quasi repentinamente in uno Stato unitario”. (F. Pappalardo, “Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia”, in Cristianità, n. 366, Ott.-Dic. 2012).
Intanto l’opera dell’economista di origini pugliesi, parte da alcune premesse: la 1 è che nel secolo XIX, “sarebbe stato difficile identificare molte caratteristiche comuni o legami sentimentali e patriottici” (p. 14)fra gli Stati italiani. L’elemento comune più importante è che tutta la penisola italiana aveva fatto parte dell’impero romano. La 2 premessa è che la Penisola comprendeva sette Stati con leggi diverse, con differenze linguistiche significative e con pochi contatti fra la maggior parte delle popolazioni, caratterizzati da tradizioni e da storie molto diverse. 3. Inoltre a casa Savoia interessava espandere il proprio regno verso la Pianura Padana che unificare la Penisola. 4. Il Risorgimento era stato un movimento principalmente di élite e, specialmente nel Mezzogiorno, l’appoggio popolare era stato molto ridotto. 5. Infine, il Regno delle Due Sicilie non era governato da stranieri, era riconosciuto diplomaticamente da tutti i Paesi e la sua invasione non aveva alcuna legittimazione giuridica.
Pertanto, “[…] bisogna chiedersi – osserva Tanzi – se, il modo in cui l’Italia fu unita era il solo modo possibile di farlo; e se non c’erano altre scelte migliori, che avrebbero potuto ridurre il costo, per i cittadini italiani, e specialmente per quelli del Meridione, che fu pagato” (p. 151)
Dopo l’unità, fu creato uno Stato unitario centralizzato,“con regolamenti uniformi per tutti i disomogenei territori del regno e con una struttura amministrativa molto gravosa, che provoca difficoltà e forti reazioni”. Fra le reazioni, c’è da registrare il cosiddetto “brigantaggio”, una resistenza armata a quelle che molti consideravano forze di occupazione. Infatti scrive il professore Tanzi: “l’occupazione delle forze garibaldine, seguita da quelle piemontesi, che, secondo molte testimonianze, fu pesante, caotica e sicuramente non rispettosa delle tradizioni locali, delle proprietà pubbliche e private, e di vari diritti dei cittadini, insieme al peggioramento della situazione economica, che, per molte persone, accompagnò immediatamente l’unificazione, insieme ad altri fattori, come per esempio l’attitudine di disprezzo che Vittorio Emanuele dimostrò verso i napoletani, durante la sua breve visita alla città nel 1861, contribuirono, senza dubbio, ad ingrandire, se non a creare, il fenomeno” (p. 122)
La lotta al brigantaggio fu sicuramente una guerra civile, che ha provocato decine di migliaia di vittime, il governo centrale ha dovuto impiegare un esercito di 120 mila uomini, che ha messo a ferro e a fuoco per quasi dieci anni tutto il meridione.
L’economista si sofferma soprattutto sugli aspetti finanziari ed economici dell’unificazione. “Dopo il 1861 – scrive Papppalardo – vengono scaricati sul Regno d’Italia gli enormi debiti contratti dal regno di Sardegna per le ‘guerre d’indipendenza’ e per lo sviluppo delle proprie province, esclusa però la Sardegna”.
Il nuovo Stato nasce con uno smisurato debito pubblico e con un disavanzo perenne nei conti pubblici, che creano e creranno grandi difficoltà dei governi italiani. Tanzi sottolinea le conseguenze negative dell’unificazione che colpiscono soprattutto il Mezzogiorno, ne evidenzia alcuni: 1 l’appropriazione dell’oro del Regno delle due Sicilie. 2 il forte aumento delle tasse nel Sud per equipararle a quelle del Nord. 3 la soppressione di ogni ente morale ecclesiastico e l’incameramento dei relativi beni, in pratica si distrugge la rete di welfare creata dalla Chiesa a sostegno dei deboli. 4 nasce il fenomeno emigratorio, sia verso il Nord sia verso l’estero, specialmente nelle Americhe. 5 il declino economico e culturale di Napoli, una delle più grandi città d’Europa, insieme a Londra e Parigi, che avrebbe meritato invece di essere la capitale della nuova Italia. In pratica Tanzi critica la scelta centralizzatrice dei liberali piemontesi, molto diversa rispetto a tutti gli altri Paesi nati dall’unificazione di territori con tradizioni differenti, come gli Stati Uniti d’America, l’Impero Germanico, la Confederazione Svizzera. Tanzi ritiene che “la creazione di una confederazione di Stati, che avesse trasferito gradualmente il potere a un governo federale, avrebbe risparmiato al paese molti costi, economici e in vite umane”.Sostanzialmente invece si preferì applicare il centralismo politico-amministrativo di tipo francese. Queste politiche non erano adatte a creare l’Italia, sognata dai risorgimentali.“Crearono invece un’Italia che geograficamente e politicamente era unita ma economicamente, e forse socialmente, era disunita”.
Domenico Bonvegna
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