Il 2016 ci ha portato una ripresa economica che va consolidandosi su ritmi lenti, distanti da quelli prevalenti prima della crisi e che non consente di prospettare un pieno recupero dei livelli di attività pre-recessivi, se non in tempi lunghi. Da questo punto di vista, occorre riconoscere che molto è stato fatto dopo la chiusure dell’esperienza dei “governi tecnici”, anche in virtù del contestuale riassorbimento delle tensioni sui mercati finanziari. Il grado di stringenza della politica fiscale si è molto ridimensionato nel corso dell’ultimo biennio e la discussione in sede europea sui temi dell’austerità di bilancio garantisce dal rischio di un ritorno dell’austerity.
Il contributo fornito dal diverso orientamento della politica economica all’uscita dalla recessione italiana è indubbio; restano tuttavia al di sotto delle attese i risultati ottenuti in termini di intensità della ripresa. Un fattore ci sembra giocare un ruolo centrale: la situazione di diffusa insicurezza in cui si sono ritrovate famiglie e imprese italiane alla fine della grande crisi. Incertezze dovute a contesti economici – il crollo del potere d’acquisto delle famiglie, l’aumento della disoccupazione, il credit crunch – e penetrazione dei fenomeni criminali a danni di cittadini e imprese.
Sulla base dei risultati delle nostre stime econometriche abbiamo simulato gli effetti per l’Italia di un miglioramento del contesto sociale, culturale e istituzionale. Nello specifico, abbiamo stimato quali potrebbero essere gli effetti sul reddito pro-capite se l’Italia avesse le stesse caratteristiche della Germania in termini di tasso di criminalità, di condizioni di accesso al credito e di efficienza delle procedure d’insolvenza. Dalle nostre elaborazioni emerge che il reddito potrebbe aumentare, potenzialmente, di oltre 3 mila euro per singolo abitante, con un incremento di quasi il 12 per cento rispetto al livello medio osservato nel 2015.
Potere d’acquisto, consumi e tasso di insolvenza delle famiglie
C’è, a tal riguardo, un dato che più di altri riteniamo possa spiegare l’emergere di un sentimento di insicurezza negli anni della crisi ed è la contrazione ampia, inattesa, diffusa, del reddito disponibile. Ampia, perché secondo i dati di contabilità nazionale tra il 2007 e il 2013, anno che ha segnato il culmine degli effetti dell’austerità fiscale, il potere d’acquisto delle famiglie italiane è diminuito del 10,6 per cento. In termini monetari, la perdita è stata superiore ai 118 miliardi di euro, equivalenti a oltre 2100 euro per cittadino residente. Inattesa, perché mai prima, nella storia della Repubblica italiana, il reddito reale delle famiglie era diminuito per un periodo tanto lungo.
Nel biennio 2014-15, meno dell’uno per cento della perdita subita è stata recuperata, a conferma ulteriore della debolezza della ripresa seguita alla grande crisi. Ciò significa che ogni residente ha recuperato meno di 180 euro degli oltre 2.100 persi nei precedenti sei anni; nell’aggregato, sono tornati nella disponibilità delle famiglie meno di 8 dei 118 miliardi di euro andati persi.
Il crollo del potere d’acquisto ha portato anche ad una riduzione della spesa media familiare, che nel 2014 si assesta sui 2.489 euro, 160 euro al mese in meno rispetto a prima della crisi, nonostante il piccolo recupero (+0,7%) del 2015 sul 2014.
Approfondendo il dato relativo all’andamento dei consumi per tipologia di bene e servizio, la prima immediata osservazione riguarda le forti differenze riscontrate per le diverse voci di spesa, dove tra il 2007 e il 2014 le minori disponibilità delle famiglie hanno comportato un forte decremento per i beni di largo consumo, a fronte di un’ulteriore concentrazione dei consumi “necessari”, destinati all’abitazione e relative utenze, cui si correla un importante ridimensionamento dei consumi per abbigliamento e calzature (-28,8%), per servizi ricettivi e di ristorazione (-12,6%), per mobili e servizi per la casa (-20,8%) e per ricreazione, spettacoli e cultura (-22,4%), colpendo cioè direttamente le piccole imprese del commercio e dei servizi del territorio, ma anche la stessa qualità della vita dei cittadini.
Il tasso di insolvenza delle famiglie, ovvero il rapporto tra sofferenze bancarie e impieghi, risulta infatti nel 2015 in leggera crescita, passando dal 5,8% del 2014 al 6,1% del 2015.
Considerando invece la dinamica della disoccupazione, si osserva un decremento rilevato nel 2015 nell’intera Italia (dal 12,7% all’11,9%), che però non riesce a recuperare se non marginalmente il forte scarto rispetto alla situazione pre-crisi, quando i relativi valori si attestavano sul 6,1% in Italia, a conferma di come, pur in presenza di positivi segnali di ripresa su diversi fronti, le ancora diffuse condizioni di vulnerabilità e di insicurezza rallentino significativamente un già particolarmente complesso e contrastato processo di rilancio del territorio e del Paese.
Dal lato delle imprese, uno dei fattori maggiori di insicurezza è costituito dalla stretta creditizia. Tra il 2011 ed il 2015 i prestiti alle imprese sono diminuiti in Italia del 20,9%, circa 190 miliardi di euro in meno, in media circa 31mila euro di credito ‘sottratto’ per ogni attività. Sono comunque le realtà produttive di grandi dimensioni ad assorbire 8 euro su 10 dei finanziamenti concessi dagli istituti di credito: nel 2015 alle imprese con almeno 20 addetti sono stati destinati 14,8 miliardi di euro, l’81% dei prestiti erogati, a fronte del 18,9% indirizzato alle imprese più piccole.
Complessivamente, tra il 2011 e il 2015 anche il tasso di insolvenza è aumentato di quasi 10 punti percentuali, portando il rapporto sofferenze impieghi da 8 a 17,2%. A livello settoriale si confermano in tutte le macroaree le maggiori difficoltà del comparto edile, il cui tasso di insolvenza è cresciuto di quasi 20 punti percentuali nel corso degli ultimi cinque anni, raggiungendo il 29,6% nel 2015 (era pari al 9,7% nel 2011). Nel terziario i prestiti in sofferenza sul totale degli impieghi sono più che raddoppiati, passando dal 6,8% al 14,9% (+8,1 punti), mentre nel manifatturiero hanno raggiunto il 14,4%.
La demografia di impresa, nell’ambito del commercio al dettaglio, evidenzia una forte prevalenza delle cessazioni sulle nuove iscrizioni, presentandosi dunque le criticità di tale segmento del tessuto imprenditoriale come evidenze che si manifestano trasversalmente all’interno del territorio nazionale. Nel 2015 il saldo tra iscritte e cessate risulta pari a -20.118 imprese per il commercio al dettaglio ed a -8.949 per i pubblici esercizi (-2.350 e -752 in Campania), in netto peggioramento rispetto al 2010, quando si registravano scarti pari rispettivamente a -576 e -99, indicativi di una migliore tenuta del commercio di prossimità , all’interno dell’economia locale. L’incidenza delle imprese che hanno cessato l’attività, entro i tre anni successivi all’apertura, rimane alta: è del 39,5% per le imprese nate nel 2010, quatto punti percentuali in più rispetto a cinque anni fa.
Durante la crisi, il numero di reati denunciati da cittadini e imprese in Italia è cresciuto sensibilmente, con un parziale recupero solo nel corso del 2014, primo anno di ‘tregua’ dalla recessione. Complessivamente, dal 2008 al 2014, i reati sono aumentati del 3,8%, arrivando a superare quota 2,8 milioni. L’aumento è più marcato nelle regioni del Centro (+8,9%) e del Nord Est (+7,1%). I reati di cui sono stati scoperti gli autori sono meno di 2 su 10 (18,8%), in leggera crescita sul 2010 (+0,2%).
Nel periodo particolarmente notevole appare l’aumento dei reati ai danni delle imprese del commercio e del turismo. Le denunce per furti e rapine sono cresciute del 12,6%, ad un ritmo tre volte più veloce degli altri reati. Si registra inoltre un vero e proprio boom della contraffazione, che cresce del 40,3%, incremento trainato dal Nord Est (+147,2%) a quasi 9mila reati denunciati nel 2014. A questi si aggiungono le oltre 12mila persone arrestate o denunciate per abusivismo e le oltre 28mila sanzionate amministrativamente.