I vescovi e i preti

di ANDREA FILLORAMO

I Cardinali elettori di Bergoglio, conoscevano le diagnosi da lui fatte, quando era cardinale di Buenos Aires, sui problemi della Chiesa e forse per questi motivi l’hanno eletto; ma alcuni di loro, seguiti da vescovi e preti, che non sappiamo se nella Chiesa rappresentano una minoranza o una maggioranza e che oggil’osteggiano, forse l’hanno dimenticato e agiscono ancora come se Papa Francesco non ci fosse. La linea ministeriale del papa argentino, che emerge da tutto quel che adesso egli fa e che da quel che dice, era tutta contenuta nelle attività pastorali che svolgeva in Argentina, neidiscorsi, nelle omelie e nei suoi libri, di allora. In alcuni di questi libri, fra quelli tradotti dallo spagnolo, cerco oggi di “spigolare”, con l’intento personale di comprendere il messaggio che egli con coraggio allora inviava e ancor oggi, da papa,invia. Il mio è lo sforzo di aggiungere all’entusiasmo con cui ho accolto la sua nomina a “vescovo” di Roma, come egli ama presentarsi, una conoscenza più approfondita di un papa che sicuramente lascerà una scia profonda nella vita della Chiesa.Due, per Papa Francesco, sono le gravi patologie della Chiesa di oggi: l’“autoreferenzialità” e il“clericalismo”. L’autoreferenzialità vieta di “percorrere strade nuove”, di“uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista”, di cogliere la novità “che ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti”.Il clericalismo, poi, è la religiosità senza fede, l’incapacità di essere docili allo Spirito, di abbandonarsi alla "libertà inafferrabile della Parola" che sfugge alle nostre previsioni e rompe i nostri schemi”. A mio parere la chiave di lettura dell’anticlericalismo professato dal Papa, non solo spiega il motivo per cui egli ha fatto breccia nel cuore e nella mente di tanti, credenti, praticanti e non. Essa è la chiave di volta per intendere ogni parola del suo magistero. Capito questo, si capisce il suo pontificato e si comprende perché a molti risulti indigesto. I vescovi e i preti, che non approntano delle terapie efficaci nella cura di questi due malanni o si crogiolano dentro, in attesa sempre di tempi per loro migliori, in cui – a loro parere – l’enfasi che ancora accompagna questo papa atipico, si stemperi, si riducono, per il Papa, a «gestori tristi» della fede, che non avvicinano, ma allontanano le masse maggioritarie che da anni hanno perso l’abitudine di andare in chiesa; cioè i «poveri», che non sono solo quelli materiali, ma anche chi è povero di verità e di bellezza, le «periferie», che non sono solo quelle geografiche ma sono anche quelle «esistenziali» di chi è privo di sicurezza e di gioia, «dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni». Papa Francesco, rivolgendosi a preti e vescovi, afferma con forza: che «non è precisamente nelle auto-esperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di auto-aiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente».Chi ha vissuto o vive all’interno della famiglia clericale, capisce perfettamente quanto il Papa vuol dire: non c’è, né può esserci un“protocollo” pastorale; non ci sono, né ci possono essere continue riunioni, incontri, convegni, capaci di soddisfare le esigenze che nascono dal Vangelo. Non ci sono neppurenovene, “scapolari”, “medaglie miracolose”, processioni di santi e madonne,che si susseguono l’una all’atra in tante chiese, talvolta anche “redditizie”, gestite da preti. Che dire, poi, dei pellegrinaggi a Medjugorje, con cui è facile sostituire la fede con il sentimentalismo, ma che per tanti diventa superstizione? Perché poi pensare e credere che Maria, da brava “postina” ogni giorno consegna la sua lettera a pseudo- veggenti? Per tali motivi, troppi preti «finiscono per essere tristi; preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore”». Questa, quindi, per papa Bergoglio è “la malattia tipica della Chiesa ripiegata su se stessa; è l’autoreferenzialità una specie di narcisismo, che ci conduce alla mondanità spirituale e al clericalismo sofisticato”. Papa Francesco aggiunge: “un sacerdote che esce poco da sé, che non è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale e invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore». E «tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore».La più efficace terapiache il Papa propone è sempre la stessa: «uscire da se stessi per andare verso le periferie esistenziali». O si fa così, o la malattia si aggrava. «Una Chiesa che non esce fuori da se stessa, presto o tardi, si ammala nell’atmosfera viziata delle stanze in cui è rinchiusa». Certo che agendo in questo modo, cioè andando a cercare nelle «periferie esistenziali» i nuovi naufraghi dell’esistenza, che non vengono in chiesa, espone anche a rischi. Il papa molto spesso si rivolge ai vescovi, ritenendoli molto spesso i responsabili della situazione che si vive nella Chiesa e noi lo sappiamo che la maggiore responsabilità è sempre dei vescovi e a loro dice: «che il Signore ci liberi dal pericolo di macchiare il nostro episcopato con gli orpelli della mondanità, del denaro e del “clericalismo di mercato”», che vanno sostituiti dal gusto «dell’umiltà e del lavoro silenzioso e coraggioso che viene dallo zelo apostolico».
E vale anche per il Papa, che chiede ai vescovi e ai fedeli di pregare «affinché non mi inorgoglisca – scrive – e sappia ascoltare ciò che Dio vuole e non ciò che voglio io». Credo che Papa Francesco sia fortemente convinto che l’aridità spirituale, che si sta diffondendo un po’ dovunque, ha nel tempo causato vari guai: crisi di guide spirituali, gravi errori di discernimento, carenza di vocazioni, penuria di santità… Occorre, quindi, il recupero dell’esperienza mistica, che non va confusa con la manifestazione di carismi o di fenomeni particolari ma con la più autentica dimensione della fede. Essa affonda le sue radici nell’insegnamento di Gesù, ed è la più profonda espressione della compartecipazione alla sua natura divina. “Io sono la vite, voi i tralci, …chi rimane in me e io in lui porta molto frutto” (Gv 15,1s); “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te” (Gv 17,21s). Una deformazione frequente nei teologi è una certa presunzione che viene dal trattare cose alte con una eccessiva stima della propria intelligenza o cultura. “Di teologia si può anche morire”. Lasciamo, quindi, la teologia ai teologi, l’uomo di strada ha bisogno di venire a contatto con l’esperienza e il linguaggio dei mistici, come quello di papa Francesco che sfugge alle facili schematizzazioni e alle fredde catalogazioni di chi si accosta allo studio delle cose di Dio con cuore arido. Il Papa porta in sé un tesoro di conoscenza, acquisito per via contemplativa e per unione col mistero, che è assai prezioso; un tesoro avvicinabile solo dai “puri di cuore”, dagli spiriti più umili e più innamorati del Cristo. San Tommaso d’Aquino dichiarò, prima di morire, che tutta quella scienza di cui aveva scritto era ben poca cosa rispetto a ciò che il Signore gli aveva comunicato per via mistica. Sant’Ignazio di Loyola, quando si ritirò a vita spirituale sulla riva del Cardonner, fu introdotto da Dio alle vette più alte dello spirito, tanto da cogliere l’unificazione di tutto e il più profondo senso delle cose.Affermò di aver ricevuto una luce così intensa nell’intelletto che gli parve di essere divenuto “un altro uomo”, e se anche non fosse esistita la Sacra Scrittura ad insegnargli le verità fondamentali, sarebbe stato ugualmente disposto a morire per esse in virtù “di quanto aveva visto”.