Qualche anno fa presentando un libro di Giorgio Gibertini, pubblicato dalla Sugarcoedizioni, evidenziavo la mancanza di leadership di uomini e donne credibili per il nostro Paese. In quell’occasione facevo esplicito riferimento al commissario Luigi Calabresi come straordinario esempio di grande dedizione al suo lavoro e al bene della società. Sono convinto che lo studio di questa grande personalità del secolo scorso è utile per chi intende intraprendere una attività pubblica al servizio del prossimo.
A questo proposito propongo un mio studio proprio sul commissario che doveva essere pubblicato su una prestigiosa rivista siciliana.
A cosa può servire raccontare la vita e le opere di un uomo tutto di un pezzo come il commissario Luigi Calabresi, martire negli anni di piombo. Ricordo che quando ero adolescente, in tv e sui giornali del tempo appariva con maglioni dolcevita, le basette lunghe, lo sguardo fiero e mediterraneo. E poi la sua “500”, le spranghe e le catene, i poliziotti, i cortei, gli insulti, il linciaggio a mezzo stampa, l’assassinio. Siamo negli anni del “68”, gli anni dell’ubriacatura ideologica, della lotta politica che degradava nella lotta armata, nelle stragi. “Le premesse di una stagione di contestazione e rivolta erano in incubazione e che il 1968 portò alla luce segnando l’inizio di un periodo che porterà negli anni successivi anche alla lotta armata con la creazione di diversi gruppi e movimenti che si muoveranno all’interno della cosiddetta “sinistra extra-parlamentare”. Scrive Enzo Peserico, uno studioso milanese prematuramente scomparso, in “Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, Terrorismo e Rivoluzione”, Sugarcoedizioni (Milano 2008) “La preparazione e l’avvio della lotta al sistema cominciò con l’occupazione di alcune università: in particolare a Trento, presso la facoltà di sociologia nacque quella che sarà la “fucina della rivoluzione” e questo grazie al contributo di studenti di area cattolica, convinti che la sintesi tra cristianesimo e rivoluzione fosse che il Regno di Dio doveva corrispondere al regno dell’uguaglianza teorizzato dal marxismo. Tra questi studenti di formazione cattolica il più importante fu Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Questa “meglio gioventù” – o gioventù bruciata – aprì lo scenario del terrorismo di sinistra in Italia ed è in questo modo che cominciarono a muoversi gruppi e sigle nel contesto dello stesso filone marxista-leninista. Comunque le BR costituiranno il “nucleo d’acciaio” di rivoluzionari che spenderanno la propria vita per il successo della Rivoluzione in perfetta sintonia con il ‘Che fare?’ di Lenin, «in cui s’ipotizza […] un gruppo di rivoluzionari di professione, che consacrano la loro vita alla rivoluzione e che operano interpretando le istanze del proletariato affinché esso prenda coscienza”.
In questo clima inacidito si erge la figura di “un uomo che aveva il senso dello Stato, che credeva al decoro delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, che aveva la responsabilità di uomo d’ordine”. Luigi Calabresi, con un’espressione antica, demodè, si definiva, “servitore dello Stato”, proprio in questo restò fedele fino alla morte per solo 270mila lire mensili, uno stipendio medio per quei tempi.
Il commissario Luigi Calabresi era un fervente religioso, aveva scelto di lavorare nella polizia per vocazione, non tanto per lo stipendio, poteva fare benissimo altri lavori magari più remunerativi; nelle difficoltà, spesso ripeteva di essere nelle mani di Dio. In una discussione registrata del 1964, rispondendo a delle domande, aveva detto: “Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente (…) In questo mondo neopagano, il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla sua vita non coincide con quello dei più”.
Un libro racconta in maniera dettagliata la vicenda Calabresi, “Gli anni spezzati. Il Commissario. Luigi Calabresi”, di Luciano Garibaldi, Edizioni Ares, Albatross Entertainment S.P.A (2013). Peraltro da questo testo è tratta la fiction televisiva “Gli anni spezzati. Il Commissario”, andata in onda su Rai 1 ai primi di gennaio di quest’anno.
“Luciano Garibaldi – scrive Marcello Veneziani nella prefazione – fu il primo giornalista che riuscì a far parlare in un’intervista su “Gente” la vedova di Luigi Calabresi, Gemma Capra(…) Garibaldi seguì negli anni la vicenda Calabresi con passione civile e rigore di cronista, ne fece una battaglia di principio e di verità storica. Anche grazie a testimonianze come la sua, a Calabresi fu data dal presidente Ciampi, con trentadue anni di ritardo la medaglia d’oro al valor civile. Un riconoscimento postumo, che si insinuava come una piccola parentesi nel fiume di parole, interventi, pressioni per la grazia a Sofri e Bompressi. Nell’immaginario collettivo del Paese, i martiri erano diventati loro, non Calabresi”.
Veneziani evidenzia il grave episodio degli 800 intellettuali che hanno firmato un manifesto pubblicato da L’Espresso per delegittimare Calabresi. In pratica tutto l’establishment culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano, tra questi Alberto Moravia, Norberto Bobbio, Umberto Eco, Margherita Hack, nel manifesto-lettera, Calabresi veniva definito “commissario torturatore” e “responsabile della morte di Pinelli”. A tutti questi si aggiunse “(…) il Movimento nazionale giornalisti democratici, sorto nei pensatoi controllati dai partiti comunista e socialista, fonte inesauribile di autentica disinformazione e di ricostruzioni arbitrarie dei fatti, basate sulle fantasie più assurde e indimostrabili, vera sorgente alla quale si abbeveravano giornalisti che scrivevano sui quotidiani e sui settimanali più diffusi”. Per Garibaldi gli “Ottocento” sono i veri mandanti (im)morali, dell’uccisione del commissario, come vengono definiti in un capitolo del libro. Peraltro “costoro condannarono Calabresi senza disporre di un benché minimo indizio, dopo che la magistratura lo aveva prosciolto in un regolare processo, senza assolutamente chiedersi, prima di firmare, chi veramente fosse l’uomo che accusavano di assassinio, che indicavano – con l’autorevolezza dei loro nomi – al pubblico ludibrio e al linciaggio dei fanatici dell’estrema sinistra”. Poi bisogna anche dire che le istituzioni, come bene evidenzia la fiction televisiva, per certi versi hanno abbandonato al suo destino il povero commissario. Pertanto si può senz’altro sostenere con Garibaldi che “Lo Stato disertò. Gli “ottocento” firmarono. E, sulla base di quelle firme, Lotta Continua uccise”. Garibaldi racconta con passione, attento anche ai dettagli e alle sfumature, documentando la vicenda Calabresi. Ma soprattutto mostra con chiarezza la vera figura di Calabresi, la sua vocazione, la sua professionalità, “una fedeltà non a una carta, ma a uno stile, a una patria, a uno Stato. Che li mandava allo sbaraglio e poi si dimenticava di loro; e ciononostante, i cavalieri come Calabresi partivano alla carica”. Il libro inizia con una polemica nei confronti delle istituzioni che non hanno fatto abbastanza per i tanti caduti sotto la violenza politica negli anni di piombo, poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie, che non hanno ottenuto giustizia. “sono ricordati con memore gratitudine da tutto il popolo italiano? Le loro famiglie hanno ricevuto sostegno che spettava loro? E lo stesso Luigi Calabresi, nonostante la generosità del figlio Mario che, con voce coraggiosa, scrivendo il libro “Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo”, edito da Mondadori nel 2007(…) ha davvero ottenuto giustizia?” Difficile affermarlo – scrive Garibaldi – se si pensa alle scritte ‘Calabresi Assassino’ comparse sui muri di Torino dopo la nomina di Mario Calabresi a direttore de ‘La Stampa’”.
Probabilmente per alcuni è un passato che non vuole passare. Il commissario Calabresi fu assassinato da un commando di “Lotta Continua”, organizzazione comunista, il 17 maggio 1972 in Via Cherubini, proprio sotto casa a Milano, fu la prima vittima degli “anni di piombo”. Per questi rivoluzionari il commissario, era l’assassino di Giuseppe Pinelli, arrestato e interrogato per la strage della bomba presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969. In occasione del trentennale della sua morte, nel corso di una commemorazione, monsignor Francesco Salerno, segretario del Supremo Tribunale della segreteria Apostolica, diede lettura di un messaggio fattogli pervenire dal santo padre Giovanni Paolo II. Nel messaggio Papa Wojtyla definiva Calabresi “generoso servitore dello Stato e fedele testimone del Vangelo”, e ricordandone “la costante dedizione al proprio dovere pur fra gravi difficoltà e incomprensioni”. Il Papa auspicava che il suo esempio potesse diventare “uno stimolo per tutti ad anteporre sempre all’interesse privato la causa del bene comune”. In conclusione Wojtyla assicurava per lui “particolari preghiere e invocando da Dio Padre misericordioso sostegno per la sua famiglia”.
DOMENICO BONVEGNA