di ANDREA FILLORAMO
Ricevo sul mio cellulare da TG. un sms, che, fra l’altro mi scrive: “Leggo con piacere i suoi articoli su ImgPress e chiedo come fa a sapere tutte le notizie che riguardano Messina, dato che lei vive a Milano?……Infine desidero, giacché ho un nipote prete che noto che non è più quello che era una volta e questo mi preoccupa, che lei chiarisca in che cosa consiste la solitudine del prete, alla quale tante volte ha accennato".
Rispondo immediatamente. Le informazioni che ho utilizzato per costruire i miei articoli concernenti l’arcidiocesi di Messina, il suo clero e il suo arcivescovo,nascono tutte non soltanto da accertate segnalazioni e informazioni dei preti (n°43), che mi hanno onorato con la loro comprovata amicizia, ma dai “focus group”, che più volte ho attivato,o a casa mia o in altri luoghi, nei periodi in cui sono tornato in quella che ho considerato sempre la mia città. Ciò negli ultimi anni è avvenuto frequentemente. Mi spiego: il “focus group” (uso un “anglicismo” e una “contaminazione linguistica”, di cui, purtroppo, nell’era tecnologica non possiamo fare a meno) è una tecnica qualitativa di rilevazione dei dati basati sulle informazioni che emergono da una discussione di gruppo su un tema che si intende indagare in profondità. Si tratta, in poche parole, di un’intervista allargata a più persone costituenti un gruppo, caratterizzato da spontaneità e da sincerità, che è il presupposto fondamentale per ricavare informazioni utili”. Ho fatto sempre esperienza di questa tecnica che ho utilizzato più volte da Dirigente Scolastico con esiti sempre interessanti, utili per monitorare, con i docenti, il gradimento di determinati progetti o iniziative formative o, con gli alunni, di determinate classi, per monitorare il rendimento scolastico. Di diversi focus group mi sono servito anche nello scrivere un mio libro: “Come organizzare una scuola di qualità” Casa Ed. Mimesis Milano 2006. Dopo queste esperienze, ritengo di essermi impadronito talmente di questa tecnica da utilizzarla facilmente in ambiti diversi. I miei “focus”, di cui mi sono servito per conoscere i vari malesseri della diocesi e dei preti peloritani, sono stati di due specie, una in cui era prevista la presenza fisica dei partecipanti al gruppo, che chiamo “vis-à-vis”; l’altra che avveniva attraverso diversi mezzi informatici, che danno la possibilità on line a più persone di dialogare contemporaneamente fra di loro. Ambedue, quindi, io le ho usate e le ho riversate negli articoli concernenti la situazione della diocesi di Messina. Soffermiamoci particolarmente sulla prima specie di focus, quella “ vis-à-vis”, che è quella che ho preferito, perché la più facile, la più immediata, la più certa e la più verificabile, che però esigeva una mia presenza a Messina. Per passare dalla teoria alla pratica e per quasi “toccare con mano” l’efficacia di questa tecnica, prego il mio gentile interlocutore di rileggere un mio articolo del mese di agosto 2015. Esso contiene il resoconto di un “focus” avvenuto due mesi prima delle dimissioni dell’arcivescovo di Messina, quando piovevano da ogni dove sulla testa del vescovo emerito lagnanze e accuse. Fra queste, quella dell’uso che egli faceva del suo riconosciuto diritto di trasferire i preti da una parrocchia all’altra, in modo, a dir poco (secondo il parere dei preti), discutibile. Non era passato allora molto tempo dal licenziamento senza motivo dell’arciprete di Taormina Sinitò, accusato ingiustamente dal vescovo di avere un rapporto sentimentale con una ragazza. Il focus, che ho riportato nell’articolo citato in ogni suo momento assieme agli effetti, è avvenuto durante una cena di un gruppo di preti, miei amici, alla quale io ero stato gentilmente invitato Essi, durante la loro discussione, fra un bicchiere e l’altro – scrivevo nell’articolo – approfondivano il problema, per loro molto importante, della mobilità dei parroci e non si risparmiavano dal fare riferimento a vari “casi” ritenuti espressione di ingiustizia da parte del vescovo. Io intanto ponevo quesiti, chiedevo spiegazione e cercavo di riportare sempre la discussione nell’alveo della tematica da trattare. Non è sfuggito a loro il caso di un prete, parroco di una parrocchia da più di cinquanta anni, del quale – dicevano anche “peste e corna”. Nella discussione non sono mancate, quindi, le malignità o i pettegolezzi, dei quali mi sono mantenuto totalmente estraneo, ma che tuttavia, nel riferirli ma solo in parte, li ho ritenuti importanti per far conoscere la psicologia dei miei conviviali e dei preti in generale, della quale da tempo mi interesso, che sostanzialmente non si differisce da quella dei laici e che si nutre anch’essa di gossip, maldicenze, invidie e gelosie.Tutto, senza alcuna remora o censura, io riversavo, quindi, nell’ articolo, che è diventato un “racconto molto breve” pubblicato su ImgPress. In esso, essendo come ho detto un racconto e non un’accusa a qualcuno, mi son guardato bene di riferire l’identità del prete in questione e ho dato anzi per esigenze di privacy e di rispetto, un nome di fantasia. Gli effetti? Grande attenzione da parte dei lettori su un tema ritenuto importante nella chiesa messinese ma anche: “apriti cielo” da parte di un sacerdote, uscito inaspettatamente dal buio pesto dell’anonimato, che, quindi, non è riuscito a spogliarsi della personalizzazione assolutamente gratuita e porsi, assieme a tutti gli altri lettori soltanto la seguente domanda: “è vero o è falso quello che sostengono i partecipanti a quella cena”, cioè che la mobilità dei parroci da parte del vescovo era troppo discrezionale?. Da parte mia posso assicurare che non mi interessava assolutamente, mentre ascoltavo gli amici, sapere chi fosse quel prete; cercavo soltanto di mantenere la conversazione dentro determinati binari, che tutti partecipassero al colloquio, che fossero stimolati i soggetti più reticenti, che fosse posta attenzione alle volontà meno esplicite di intervenire e che tutti, dico tutti, dessero una risposta documentata – ed era questo che più interessava ed era questo il mio compito – alla domanda: “è giustificato il fatto che un vescovo lasci un prete per più di mezzo secolo, mentre non può rimanere lungo tempo in una parrocchia quando oltretutto sa di non essere molto gradito a tanti?”.
Rispondo, adesso, come posso, all’altra domanda del mio interlocutore, alla quale, da quel che ricordo, precedentemente aveva in parte risposto don Ettore Sentimentale su ImgPress. In questi anni di riaccostamento al mondo particolare dei preti e non solo di quelli della diocesi messinese, sono giunto a determinate considerazioni. Ho notato innanzitutto che, a differenza del passato, il senso di solitudine ai nostri giorni si va ancor di più diffondendo tra i preti. Tale solitudine non è tanto di carattere familiare o sociale, quanto piuttosto di tipo pastorale-ministeriale. I preti non soffrono principalmente per la mancanza di una famiglia propria, né per la perdita di significatività del proprio ruolo in ambito sociale. A far loro male sembra essere piuttosto la carenza di relazioni fraterne e di sostegno all’interno del mondo ecclesiale. Essi sanno che di fronte alle decisioni che devono prendere quotidianamente, di non essere adeguatamente accompagnati e di dover contare per lo più sulle proprie forze. Il problema riguarda il rapporto con i confratelli. La necessità di una relazione cordiale, schietta e fraterna del prete con i confratelli non risiede prima di tutto in un suo bisogno personale che, come si sa, può essere da lui avvertito, ma anche negato o idealizzato. Tra l’altro, se dipendesse in primo luogo da un disagio o da un desiderio di tipo psicologico, tale relazione di comunione e collaborazione risulterebbe per lo più soggetta agli umori e alle contingenze del momento. Ora, se non può essere primariamente la risposta a una lacuna affettiva o il frutto maturo di una certa affinità psicologica, la realizzazione di questo rapporto non può neppure muovere da una ricerca condivisa di strategie e opportunità sul piano della prassi. In effetti, tale qualità relazionale ha a che vedere con l’essere, ancor prima che con il desiderare e il fare. Gli alibi di cui si servono tanti preti per non fare comunione fra loro sono tanti. Per loro: “manca il tempo di stare insieme; della comunicazione; di pregare; di progettare insieme; di interrogarsi sulla cultura e sui cambiamenti culturali rispetto al compito dell’evangelizzazione; di sciogliere in modo condiviso i nodi più difficili, nella condivisione delle fatiche e delle responsabilità.” Ma non è solo questione di tempo! È anche questione di come ciascuno intende la responsabilità verso la propria vocazione: un affare personale oppure intersoggettivo?
Per quanto riguarda il nipote prete, suggerisco a T.G di regalargli per il prossimo Natale, il libro del Cardinale Martini "Prove e Consolazioni del Prete" edizioni Ancora, in cui il l’eminente autore cerca di fornire qualche antidoto ai tempi moderni e qualche consiglio pratico, di cui molti sacerdoti hanno bisogno. “La fatica fisica – quando si vedono i successi – si sopporta più facilmente, anche volentieri”, spiega il cardinale, "ma quando non ci sono le gratificazioni umane che pure si attenderebbero, e neanche quelle soprannaturali, le consolazioni interiori, e c’è invece aridità, c’è all’esterno sordità della gente, allora sopraggiunge quella fatica, quella stanchezza morale, che è una delle più gravi per un pastore, una delle croci più dolorose da sopportare, anche perché è difficilmente comunicabile. Sembra quasi che spiegandola la gente si scandalizzi; quindi, spesso, il pastore deve portarla da solo…".
Mi chiedo e chiedo: “Non sono questi i veri motivi e non il celibato ecclesiastico, che inducono molti preti a lasciare il ministero senza pensare che il percorso della «laicità», che segue l’abbandono ministeriale, presenti anch’esso insuperabili difficoltà per chi non riesce ad abbandonare la «cultura clericale» alla quale è stato formato?”. Lo scrive uno che di questi problemi se ne intende.