di Ettore Sentimentale
Sono state chiuse le porte delle chiese dell’Anno della Misericordia, tuttavia non è cessata la misericordia divina. In questa lettera vorrei riprendere alcuni tratti di questo anno particolare per aiutarvi a tornare a riflettere ancora sulla profondità, larghezza e altezza dell’amore del Signore. Fra le tante immagini evangeliche che il papa ci ha sollecitato a contemplare, la più gettonata è senza dubbio quella del “buon samaritano”, sulla quale abbiamo già fermato la nostra attenzione. Adesso penso sia giunto il momento di coglierne gli effetti.
A più riprese abbiamo sentito papa Francesco affermare che l’amore di Dio si incarna nell’amore del prossimo. Chi compie un atto di bontà verso un altro uomo, realizza l’amore di Dio in pienezza. E chi si allontana dal prossimo si allontana da Dio. Questa verità è espressa plasticamente dall’autore della Prima Lettera di Giovanni (in una libera traduzione): “Se qualcuno dice «Io amo Dio» e detesta suo fratello, è un bugiardo: colui che non ama suo fratello che vede, non saprà amare Dio che non vede” (4,20).
Allora, non è la pratica del culto, ma l’amore del fratello che dona in eredità la vita eterna. Il filo rosso che ha tenuto insieme i vari momenti del Giubileo consiste proprio in questo: la vera fraternità fra gli uomini si fonda sulla carità, non sulla fede religiosa. E proprio di questo genere di fraternità parla incessantemente il vangelo.
Papa Francesco ha tracciato la via percorribile per vivere la carità di cui parla il vangelo. Lo ha fatto attraverso le provocazioni che derivano dalle opere di misericordia corporale (dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli affamati, vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti) ispirate alla pagina evangelica del giudizio universale secondo Mt 25,31-46.
Non mi soffermo a commentarle (visto che lo ha fatto in modo egregio il papa), tuttavia desidero contestualizzarle nel loro àmbito naturale, servendomi del famoso sogno di Raoul Follerau: «Ho sognato un uomo che si presentava al giudizio del Signore, e gli diceva: “Non ho fatto nulla di disonesto o di empio. Signore, le mie mani sono pure”. Gli rispondeva il buon Dio: “Senza dubbio, senza dubbio. Ma sono anche vuote”».
Sorge spontaneo chiedersi: la nostra fede di cosa è fatta? Di bei discorsi, di celebrazioni solenni, di feste e festini? Papa Francesco ha ripetuto in tutte le salse che senza le opere di misericordia la nostra fede è vana. Qui non voglio contrapporre la teologia di Paolo (salvàti per la fede) e quella di Giacomo (senza le opere la fede non esiste), quanto ribadire che non è la fede che salva, ma la carità.
Analogo discorso va fatto per le opere di misericordia spirituale (consigliare i dubbiosi, istruire gli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare con pazienza le persone moleste, pregare per i vivi e per i morti), non per ricadere in una visione antropologica che separa e contrappone l’anima al corpo, quanto per ribadire che essendo l’uomo “spirito incarnato” vive non di solo pane, ma pure di bisogni “spirituali”.
A mio parere questo secondo gruppo di opere di misericordia oggi è in piena emergenza, vale a dire che bene o male ci si preoccupa giustamente che venga combattuta la povertà, spesso dimenticando che c’è una povertà ancora più preoccupante, quella che priva gli uomini del pane della giustizia, della bevanda della conoscenza di Dio, etc…
Mi avvio alla conclusione proponendovi un piccolo esercizio legato all’opera più esigente: “perdonare le offese”. Mentre recitiamo il Padre Nostro, inseriamo (mentalmente) il nome di chi ci ha offeso. Praticamente: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo a…”.
Auguri di ogni bene nel Signore. p. Ettore