ABBIAMO BISOGNO DI “ITALIANI SERI”, PER RENDERE PIù UMANA LA NOSTRA SOCIETà

Nei precedenti interventi su San Leonardo Murialdo ho raccontato, avvalendomi dei contributi di don Pier Giuseppe Accornero e Massimo Introvigne, la straordinaria opera evangelizzatrice e sociale di questo eccezionale santo vissuto nell’Ottocento della Torino Sabauda. Ma come ho già avuto modo di scrivere non c’è stato solo Murialdo, ma tanti altri, alcuni canonizzati dalla Chiesa, altri no. In uno studio accurato, un sacerdote, ne conta almeno 90 tra santi, beati, venerabili e servi di Dio. Ma l’elenco addirittura si può allargare a quasi 200 “santi” di uomini e donne, di rilievo per la loro pietà e per il loro apostolato sociale. Per lo più laici e laiche, appartenenti a tutti gli strati sociali.
In questo intervento voglio focalizzare la mia attenzione sul sano realismo cristiano di questi santi che si sono impegnati con abnegazione per risolvere i vari problemi del loro tempo. Qui in particolare presento il beato Francesco Faà di Bruno, vissuto nello stesso periodo di san Murialdo. Faccio riferimento al bellissimo testo di Vittorio Messori, “Un italiano serio”. Il beato Faà di Bruno”, pubblicato dalle edizioni Paoline. Peraltro,nella sua presentazione al Meeting di Rimini, nel lontano 1990, fu oggetto di attacchi sconsiderati da parte dei vari pasdaram risorgimentisti, che senza averlo letto, si scagliarono contro Messori, perchè si era permesso di mettere in discussione l’epopea risorgimentale.
C’è un capitolo del libro, il VI°, dove Messori, riesce a spiegare bene ai lettori il senso dell’opera socializzatrice dei santi torinesi.
Qui partendo dalla parabola del “Buon samaritano”, Messori, spiega il comportamento di questi straordinari “italiani seri”.“Amare il nostro prossimo come noi stessi”, esortò Gesù a quelli che lo ascoltavano. Ma il dottore della legge, chiese capziosamente:“ma chi è il mio prossimo?”. Alla fine della parabola Gesù, invita il dottore della legge a fare come il samaritano:“Va, e anche tu fa lo stesso”. Certo il comportamento del samaritano, è scandaloso, “poco sociale, non risolutivo, al limite ‘alienante’ e diseducativo”, scrive Messori. “Stando a tutti i rivoluzionari e ai riformisti (e poi, in seguito, stando ai cattolici che ‘vogliono andare a monte’, che denunciano anch’essi, sdegnati, la ‘carità alienante’, i ‘santi della beneficenza’) quell”avere compassione’, per essere autentico, efficace, deve necessariamente passare per le vie della politica”.
Dunque i santi torinesi, quegli “italiani seri”, come Cottolengo, Cafasso, Bosco, Murialdo, Faà di Bruno, quelli più conosciuti, ma tanti altri meno conosciuti, hanno obbedito a quell’antico, ma sempre attuale, comando: “Va, e anche tu fa lo stesso”. Tutti questi apostoli, secondo Messori,“passarono all’azione immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate”.
Certo questi santi hanno anche alzato la voce e denunciato lo scandalo di chi non faceva nulla per aiutare chi stava nel bisogno.“Ma, più che scrivere ‘manifesti’, distribuire volantini, creare una Nomenklatura di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita stessa”. Messori, insiste nella polemica, questi santi non hanno fatto come gli ideologi che“discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in agonia”. I nostri santi erano anche esigenti, probabilmente più dei cosiddetti riformisti laici o dei rivoluzionari atei del tempo.“I quali – scrive Messori- (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in vita”. Mentre i vari don Murialdo, don Bosco, minacciavano sventure per l’eternità,“senza limite, né fine”. Sostanzialmente la passione per i poveri era identica ai vari rivoluzionari del tempo, ma differente la terapia. Si raccomandava ai ricchi di non riporre la speranza nelle ricchezze ma in Dio, di fare opere buone,“di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistare la vita vera”. Ancora scrive Messori,“questi credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch’essi (e con quale vigore!) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria”. Sicuramente non erano favorevoli all’”esproprio proletario”, come auspicavano i comunisti. Invitavano sì a dare il superfluo ai poveri, ma doveva nascere, dalle ragioni della coscienza, del cuore. Tuttavia questi santi torinesi“intuivano che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò nasce dalla forza”. In pratica, ormai dopo il Novecento, il secolo delle ideologie, in particolare del socialismo più o meno scientifico, abbiamo infinite prove del fallimento di certe terapie rivelatesi illusorie, rovinose e catastrofiche.
Vittorio Messori, grande giornalista e storico, non poteva scrivere meglio queste riflessioni, e insiste sulle varie utopie apparse nel mondo. I santi, in particolare, questi dell’Ottocento torinese, sono“seguaci di quel Gesù che ‘sapeva quel che c’è nel cuore dell’uomo’, membri di una Chiesa millenaria ‘esperta in umanità’, prevedevano che ogni rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già poveri”.
Pertanto tutti erano convinti, che,“solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza,l’aprire il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di Dio prima che agli schemi degli uomini che l’uomo può scoprirsi fratello di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo sempre di ‘non voler fare altro che la politica del Padre Nostro’”.
Nella bimillenaria storia della Chiesa, nella tradizione cristiana, ci sono stati dei tentativi,“per anticipare già qui il mondo e l’uomo ‘nuovi’ promessici – scrive Messori -, ma si tratta di quei piccoli ‘pezzi di umanità’ che sono gli ordini e le congregazioni religiose”. Qui,“almeno nelle intenzioni, si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui tutto sia in comune, in cui l’egoismo sia il più possibile vinto”. Naturalmente questa vita comunitaria è una scelta libera, non forzata, è una “chiamata”, una “vocazione”.
Invece,“le ideologie che perseguono l’utopia dell”uomo nuovo’ e del ‘mondo nuovo’, del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l’ideale: volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la ‘virtù’ alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno stato oppressivo”. Uno stato che assomiglia molto a quello del Daesh dell’Isis. Thomas Eliot, premio Nobel per la letteratura, ammoniva gli uomini di non farsi illusioni nel“il pensare di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, ‘un mondo così perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, ormai abbiamo chiaro, abbiamo visto e constato (ma non lo ricordiamo abbastanza) “come il bel sogno di creare il paradiso interra non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori ma con quella della forza, si rovesci sempre, immancabilmente, nell’incubo concreto dell’inferno in terra”. Del resto lo sapeva bene quel santo Papa Giovanni XXIII: “mai ci saranno pace e giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro, nell’intimo di ogni uomo”. Attenzione a quelli che vogliono rendere gli uomini felici, diceva Karl Popper, perchè poi alla fine “non esistano a massacrarli per questo”. Tra tutte le idee, quella di “rendere perfetta l’umanità è di tutte la più pericolosa”
Peraltro la Chiesa esorta sempre a cambiare vita, alla conversione, ma sa anche che il peccato, l’egoismo, l’indifferenza, mai saranno del tutto eliminati, perchè l’uomo è ferito dal peccato originale. Pertanto la perfezione non è di questo mondo. Sono considerazioni che vengono fuori, ogni volta che ci affanniamo a sistemare ogni cosa su questa terra, come in questi giorni di gravi calamità naturali: il terremoto e l’abbondante nevicata, nel centro Italia.
Per quanto riguarda la poliedrica figura del beato Faà di Bruno, sono altrettanto significative le considerazioni di Messori su quest’uomo che si è dedicato anima e corpo ad alleviare i mali di migliaia di donne, domestiche di Torino, abbandonate al loro destino dai soprusi della casta liberale. Faà di Bruno fu ufficiale di Stato Maggiore e poi scienziato stimato in tutta Europa e umiliato, perché cristiano coerente, dalle autorità anticlericali massoniche di Torino. Anche il Faà di Bruno ha fatto tante cose per aiutare gli ultimi. La più importante è la Pia Opera di Santa Zita, creata nel malfamato Borgo San Donato, eretta per il ricovero, l’istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane. Al suo interno fonda una serie di opere, asili, scuole e laboratori per proteggere sempre le donne operaie, che in quel tempo erano molto numerose a Torino e spesso sfruttate dai ricchi borghesi liberali. A questo proposito Enzo Peserico, presentando il libro di Messori nel 1991 sulla rivista Cristianità (maggio-giugno 1991n.193-194) scriveva:“Si tratta di una vera e propria “città delle donne” a servizio della quale nel 1868 costruisce la chiesa di Nostra Signora del Suffragio e nel 1869 istituisce una congregazione di suore, le Minime di Nostra Signora del Suffragio. A queste seguiranno una serie impressionante di opere a favore del proletariato urbano, prodotto e insieme rifiuto del nascente potere liberal-massonico, preoccupato di rispondere alla carità cristiana con la retorica ideologica degli “uomini finti” la retorica che caratterizza Cuore, di Edmondo De Amicis, ma che sempre lesinò nel contribuire ad alleviare la miseria delle masse urbane diseredate”.
Nel suo operato non fece troppi discorsi sul proletariato, ma operò con realismo, preferì, scrive Messori,“battersi per far funzionare subito le mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche che bussavano alla sua porta[…]non elaborò un progetto generale di riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire bagni pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l’inquinamento,ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche[…]”.
Significativa la vicenda dell’orologio progettato dal beato sul campanile della Chiesa del Suffragio. Così“in attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema[…]”. Lo collocò a cinquanta metri di altezza così tutti gli ottantamila della città avevano avere l’ora esatta.
Questo semplice episodio, dimostra per Messori,“lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso”.
Anche il Faà di Bruno, vivrà fino in fondo, da protagonista, il lacerante“caso di coscienza del Risorgimento”, come è stato chiamato quello dei cattolici italiani, costretti a dividersi tra amore di patria e amore di una Chiesa perseguitata da quella patria medesima” (p. 182). Ma il nostro non indugia, si impegna in tutti i campi (dalla scienza all’arte) nella buona battaglia contro la Rivoluzione anticristiana. Dunque, concludo con le parole del compianto Enzo Peserico sul beato Faà di Bruno, è stato “un cattolico integrale, una gloria per la Chiesa. Ma anche un cittadino esemplare”(p. 210): insomma, un“italiano serio“, capofila di quella schiera di santi ignoti che, costituendo il tesoro nascosto ma grandioso della storia degli italiani, ci rendono oggi partecipi di legami di terra e di sangue molto più reali e fecondi di quelli immaginati dalle caricature tricolori di oscuri “fratelli” d ‘Italia, cari ormai soltanto ai loro nostalgici nipotini. “Italiani seri” che non hanno bisogno di difesa, ma più urgentemente di trovare figli che ne rinnovino con la propria vita l’intelligenza e il cuore: perché, come suggerisce Vittorio Messori attraverso un’epigrafe al testo, tratta da Evagrio Pontico, monaco del secolo IV,“a una teoria si può rispondere con un’altra teoria. Ma chi mai potrà confutare una vita?”. 

Domenico bonvegna
domenico_bonvegna@libero.it