Per attirare i cosiddetti “paperoni” stranieri (in gergo bancario gli “High Net Worth Individuals” o HNWI, letteralmente le persone con alto patrimonio netto), il Governo ha introdotto una “flat tax” (tassa piatta): chi trasferirà la residenza fiscale in Italia, pagherà una tassa fissa di 100.000 Euro, una cifra ben al di sotto di quanto pagherebbe se fosse applicato il regime ordinario – quello riservato a tutti noi.
Questa norma ha una sua ragione. Come ben sappiamo, il sistema fiscale italiano ha un livello di tassazione molto elevato, è complicato e a dir poco repulsivo, è caratterizzato dall’incertezza nell’interpretazione delle norme e da un sistema giudiziario lento e spesso discorde nelle sue decisioni. Nessuno sarebbe mai stato così folle da scegliere proprio l’Italia quale Paese dove pagare le tasse, specialmente perché altri Paesi europei offrono già da tempo incentivi simili. In questa competizione tra europei, che ora mira anche ad un alto numero di delusi della Brexit in cerca di una nuova casa, non fare niente significava rinunciare all’arrivo di ricchezza che avrebbe potuto portare nuove energie per l’economia italiana, anche in termini di investimenti e quindi nuovi posti di lavoro.
Eppure c’è qualcosa di profondamente ingiusto in questa flat tax, in particolare agli occhi di tutti noi che ci sentiamo tartassati da un sistema fiscale iniquo, impenetrabile, e che richiede una miriade di scadenze e adempimenti quasi impossibili da rispettare. E’ indubbio che si viene a creare una odiosa disparità di trattamento, che potrebbe violare tra l’altro l’articolo 3 (principio di uguaglianza di fronte alla legge) e l’articolo 53 della Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”).
In breve, siamo stati messi di fronte ad una scelta difficile e con poco tempo a disposizione: competere con altri Paesi per attrarre nuovi capitali, oppure lasciare tutto a loro e rimanere ancora più indietro. Così funziona la globalizzazione. Possiamo lamentarcene, imprecare, costruire muri, ma il mondo andrà avanti comunque senza di noi.
Ecco perché abbiamo bisogno di più Europa, e non certo di meno Europa. Un’Unione Europea forte e unita, federale e non intergovernativa, è l’unica strada per mettere fine alla sgradevole competizione al ribasso tra Paesi europei, e concentrarsi invece sul palcoscenico globale. Piuttosto che sprecare energie in guerre commerciali, fiscali o valutarie tra europei, potremmo far parte di un’Unione che nulla avrebbe da invidiare a giganti come Usa e Cina. Anzi, avremmo finalmente la possibilità di incidere concretamente su una più equa regolamentazione di fenomeni globali che oggi subiamo inerti. Rimanendo piccoli, disuniti e litigiosi, continueremo a subire piuttosto che guidare la globalizzazione.
Proprio perché il momento è difficile, con la potenziale deflagrazione dell’Unione Europea e il fiorire di referendum separatisti sotto il bombardamento di forze nazional-populiste, è necessario più che mai difendere e sviluppare il progetto europeo. Se non per la protezione di pace, democrazia e diritti umani, facciamolo quantomeno per la pagnotta.
Pietro Moretti, vicepresidente Aduc