Parlare di immigrati è la cosa più semplice che ci sia, basta non essere ipocriti, egoisti e negazionisti. Questo incipit vale ovviamente per chi -come noi- scrive e parla in libertà, guardando i problemi alla radice e cercando soluzioni egualitarie e non discriminatorie. Quindi, mediamente, esclusi tutti quelli che -in soldoni… e in soldoni- cercano di guadagnarci.
Prendiamo spunti da un motivo conduttore comune a quasi tutti gli approcci che si hanno alle politiche di respingimento e di accoglienza. “Chi arriva nel nostro territorio e viene accolto, deve accettare e integrarsi ai nostri valori”. Lo dicono tutti, anche l’attuale ministro dell’Interno, Marco Minniti, che, nella razionalita’ dei diversi interventi che fa, sembra diventato una sorta di bestia nera di chi -e non estremizziamo- vorrebbe affondare i barconi nel canale di Sicilia.
Attenzione: “nostri valori”, non solo “nostre leggi”. Mentre per le leggi non se ne discute neanche, anche se talvolta fanno schifo e noi stessi le vorremmo… buttare a mare (ma dura lex, sed lex), per i “valori”, cediamo che… siamo in alto mare. Cioè: chi l’ha detto che una persona che viene, per esempio, dal Sudan del sud, oltre a rispettare le leggi deve anche adeguarsi ai nostri valori? Dove è scritto? E se una tale pretesa fosse scritta nelle carte fondanti e nelle leggi della nostra Repubblica, non sarebbe una mostruosità culturale, giuridica e umana? Siamo -ufficialmente- forse uno Stato confessionale, fondato su un valore e non “solo” sul rispetto della legalità e dei trattati internazionali? Non ci sembra. Sappiamo bene che sono in diversi che fanno finta che non sia così (anche il ministro Minniti?)… ma, invece è proprio così!
Dicevamo “negazionisti”. Sono tutti gli italiani che negano quello che nel mondo, nei secoli passati e anche oggi, sono i loro connazionali che decidono di emigrare all’estero. Dal prezzemolo coltivato nelle vasche da bagno ad eleggere diversi luoghi pubblici all’adorazione di San Gennaro, o chi per lui; dalla “ostinazione” a continuare a parlare la propria lingua e i propri dialetti (le Little Italy sono sparse nelle principali capitali dell’Occidente), al continuare a mangiare all’italiana anche avviando attivita’ di ristorazione in questo senso; dall’incontrarsi coi propri connazionali per le proprie ricorrenze all’abbigliamento -mediamente- piu’ accurato rispetto alla diffusa sciatteria in merito tipica di alcuni Paesi (si pensi a Melbourne in Australia… *). Cioè quello che fanno gli immigrati quando sono nelle nostre citta’, coi loro riti, i loro culti, il loro abbigliamento, gli odori dei loro cibi e l’apertura di negozi per venderli e acquistarli. Aggiungiamo anche (in un passato non molto lontano) le abitudini dei cosiddetti divorzi all’italiana che, per esempio, in un Paese come gli Usa, si scontravano con la normalità civica, giuridica e culturale del divorzio in sè. Inoltre, forse che gli italiani non erano gelosi delle proprie donne, usate al rango di persone di serie B, e ci hanno messo un po’ di tempo a capire che se volevano vivere dov’erano -anche solo rispettando le leggi di quei Paesi- dovevano sottomettersi alle stesse, mediamente rispettose delle donne piu’ della loro cultura che sui erano portata dietro?
Quando sentiamo quindi parlare di immigrati che si devono adeguare ai nostri valori… ci irritiamo. A noi ci basta che si adeguino alle nostre leggi, che sembra siano concepite per soddisfare la convivenza di diversi valori. Ai valori specifici che ognuno pensi ai suoi.
Ci rendiamo conto che questi sono discorsi da societa’ multiculturale, ma sembra che le nostre leggi siano proprio in questo senso (chiaro, ministro Minniti, e non solo?). Se qualcuno vuole cambiare le leggi, sembra proprio che queste ultime siano state concepite perche’ sia possibile anche il cambiamento, e quindi che si diano da fare, se trovano le maggioranze, e sappiano che troveranno in quelli come noi una sponda perche’ possano esercitare questo diritto. Ma nel frattempo: che rispettino le leggi e non si inventino uno Stato confessionale basato su valori.. che proprio non esiste.
Vincenzo Donvito, presidente Aduc