Non c’è più speranza: nel biennio 2019-2020 i requisiti per andare in pensione si alzeranno di ulteriori cinque mesi. Lo prevede uno specifico decreto del Ragioniere generale dello Stato di concerto con il direttore generale delle politiche previdenziali e assicurative del ministero del Lavoro, pubblicato nell’ultima Gazzetta Ufficiale. La motivazione del provvedimento è legata alla variazione della speranza di vita per i 65enni rilevata dall’Istat nel triennio 2014-2016.
Cosa comporterà tutto questo: “Per la pensione di vecchiaia – sintetizza Il Sole 24 Ore – ancora oggi agli uomini sono richiesti 66 anni e 7 mesi, minimo previsto anche per le dipendenti del settore pubblico, mentre per le dipendenti del privato bastano 65 anni e 7 mesi e alle autonome 66 anni e 1 mese. Nel 2018 scatterà il minimo a 66 anni e 7 mesi per tutti, quale conclusione, già prevista dalle norme, del processo di equiparazione tra uomini e donne. Nel 2019-2020 per la pensione di vecchiaia saranno necessari 67 anni di età. Ma l’adeguamento alla speranza di vita fa sentire i suoi effetti anche sulle altre tipologie di pensioni. Per quella anticipata, che si raggiunge a fronte di un determinato numero di anni di contributi indipendentemente dall’età, dagli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini si salirà a 43 anni e 3 mesi, mentre le donne passeranno da 41 anni e 10 mesi a 42 anni e 3 mesi”.
La “stretta” riguarda anche i cosiddetti lavoratori precoci, cioè quelli che hanno versato almeno 12 mesi di contributi prima di compiere l’età anagrafica di 19 anni. Dagli attuali 41 anni di contributi si passerà a 41 anni e 5 mesi, senza distinzione tra uomini e donne. Inoltre, salgono “le quote, cioè la somma tra età e anni di contribuzione, con cui vanno in pensione i lavoratori che svolgono mansioni usuranti. La quota minima oggi pari a 97,6 diventerà di 98. In questo caso l’aumento è di 0,4 perché non si tratta di mesi ma di mesi rapportati in decimi (mentre l’anno ha dodici mesi). Infine, tra le principali tipologie di pensione, saranno necessari 67 anni anche per l’assegno sociale, che peraltro nel 2018 già sale a 66 anni e 7 mesi rispetto ai 65 anni e 7 mesi sufficienti quest’anno”. Gli unici ad essere derogati dall’incremento degli anni necessari a lasciare il lavoro sono le 15 categorie occupazionali con particolarmente mansioni gravose e che già hanno avuto accesso all’Ape Social, tra cui figurano anche le educatrici e i maestri della scuola dell’infanzia.
Detto che il sindacato ritiene tutto questo inaccettabile e discriminatorio, perché gli insegnanti di ogni ordine e grado scolastico sono esposti maggiormente a possibili patologie, ad iniziare da quelle neurologiche, come dimostrato dallo studio decennale ‘Getsemani Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti’, va ricordato che l’innalzamento dei requisiti era previsto già dal Governo Renzi che, pubblicando nella Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre del 2014 un decreto ministeriale di due settimane prima, aveva previsto che “gli adeguamenti dei requisiti” pensionistici dal “1° gennaio 2019” si sarebbero “effettuati a decorrere dalla predetta data con cadenza biennale”.
“L’unica differenza rispetto a quel decreto – commenta oggi Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – è che l’incremento, allora previsto di quattro mesi rispetto ai 67 anni e 7 mesi attuali, è aumentato di ulteriori 30 giorni passando a complessivi 5 mesi. Riteniamo, quindi, che l’esecutivo Gentiloni si è mosso in perfetta linea con quanto stabilito da quello che lo ha preceduto: del resto, non c’è molto da meravigliarsi, visto che i ministeri, tranne quello dell’Istruzione assegnato alla senatrice Valeria Fedeli, peraltro con risultati disastrosi, hanno tutti visto confermare nei due governi lo stesso titolare”.
“Non c’è affatto da sorprendersi, quindi, di questo aumento ulteriore. Anche perché a noi non risulta che quel provvedimento del 2014 sia stato mai abrogato. Quindi, era tutto previsto. Quello che indigna, invece, è il fatto che in Europa, come confermato dal rapporto Ocse Pensions at a glance pubblicato solo pochi giorni fa, si continua ad andare in pensione mediamente a 63 anni. Con Paesi, come la Francia, che lo consentono ancora a 60. Altri, come la Germania, che con circa 25 anni di insegnamento permettono di lasciare il lavoro. Ecco perché servirebbe una riforma contro-Fornero”.