La dispersione scolastica è in calo, ma rimane comunque davvero molto alta: ben oltre la soglia del 10% indicata oltre 15 anni fa dall’Unione Europea. Lo testimonia uno studio accurato della rivista TuttoScuola, secondo cui “negli ultimi dieci anni, degli oltre sei milioni (6.114.644) di studenti iscritti al primo anno delle superiori negli istituti statali, non sono arrivati all’ultimo anno quasi un milione e 750 mila studenti (1.744.142). Il 28,5% disperso, non pervenuto, ‘perso’ dal sistema di istruzione statale”.
La rivista ha anche quantificato l’importo in termini di spesa sociale: infatti, “lo Stato investe per ogni studente della scuola secondaria superiore € 6.914,31 l’anno (fonte Education at a glance OECD), il costo per quei 1,8 milioni di studenti che non ce l’hanno fatta è stato di oltre 12 miliardi di euro l’anno. Tenuto conto che in media – tra chi ha abbandonato dopo il primo anno (708 mila alunni), chi dopo due anni (227 mila) e così via – sono stati alle superiori in media 2 anni e una parte (2,3 anni), il costo si può stimare in circa 27 miliardi di euro (27.438.139.345 euro). Un investimento, relativo solo all’ultimo decennio, non andato a buon fine, perché non si è raggiunto l’obiettivo del completamento del ciclo di studi. Ma niente rispetto al costo sociale per le vite “segnate” di questi ragazzi senza istruzione e quindi in larga parte senza futuro. Oggi il 45% di coloro che sono in possesso della sola licenza media sono disoccupati. Difficile, purtroppo, che non tocchi lo stesso destino ai “fuoriusciti” dalla scuola statale di questi ultimi dieci anni”.
Quindi, il danno indelebile nella formazione e nel futuro dei giovani che lasciano i banchi si ripercuote anche sulle casse dello Stato che perde sotto tutti i punti di vista, sia economici che culturali: “Il costo – scrive Tuttoscuola – è enorme: 27 miliardi di euro, per non parlare del complessivo costo sociale. Quali ricette da parte delle forze politiche? La campagna elettorale non è certo incentrata su questa drammatica emorragia che ogni anno indebolisce il corpo sociale del paese e segna la vita di tanti giovani. Negli ultimi dieci anni, degli oltre sei milioni (6.114.644) di studenti iscritti al primo anno delle superiori negli istituti statali, non sono arrivati all’ultimo anno quasi un milione e 750 mila studenti (1.744.142). Il 28,5% disperso, non pervenuto, ‘perso’ dal sistema di istruzione statale”.
La situazione non è certo delle migliori poiché, oltre ai danni che la scuola pubblica subisce da questo evento, preoccupa anche la crescente problematica dei “neet”, ragazzi che né studiano né lavorano. Il loro domani non si prospetta certo roseo e delle soluzioni ci sarebbero e devono essere intraprese. Da anni il sindacato Anief propone delle strade da intraprendere, ma purtroppo Miur e Governo non vi danno seguito. Innanzitutto sarebbe necessario alzare l’obbligo scolastico a 18 anni di età; in questo modo, i ragazzi starebbero nelle aule scolastiche fino alla maggiore età, limite che potrebbe responsabilizzarli sulle scelte future. Inoltre, sarebbe necessario anticipare l’ingresso delle giovani leve nei nostri istituti scolastici: a 5 anni entrerebbero in classi-ponte che renderebbe anche meno traumatico il passaggio dall’infanzia alla primaria, con maestre di entrambi gli ambiti, in compresenza.
Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal si chiede, infatti, “per quale motivo non si è dato seguito alla nostra proposta, più che motivata anche a livello pedagogico, di anticipare di un anno l’inizio della scuola dell’obbligo, introducendo un’annualità ‘ponte’? La sua introduzione avrebbe anche sopperito al problema dell’assorbimento dei maestri della scuola dell’infanzia non inglobati nel potenziamento degli organici che ha invece toccato tutti gli altri ordini. Con la scuola primaria anticipata di un anno si migliorerebbe poi il delicato passaggio tra la scuola materna e l’ex elementare. È provato che a cinque anni i bambini hanno bisogno di una formazione di tipo essenzialmente ludico e, nello stesso tempo, di avvicinamento all’alfabetizzazione e al far di conto. Inoltre, si darebbe una bella spallata alla dispersione e all’abbandono scolastico: perché mantenendo il tempo scuola immutato e innalzando l’obbligo a 18 anni gli studenti sarebbero più coinvolti nei progetti formativi. Non guasterebbe, infine, anche rivedere i contenuti dei cicli scolastici, rendendoli anche più stimolanti per le nuove generazioni”.
“A tale proposito – continua Pacifico – non si comprende perché nella Legge di Stabilità 2018 sia stato previsto solo un incremento di 2mila maestri della fascia alunni 3-6 anni, corrispondenti a 1.700 comuni e 300 di sostegno: basta dire che le scuole dell’infanzia in Italia sono ben oltre quota 10mila, ma di queste solo 2.700 risultano pubbliche; quindi, i docenti potenziatori in arrivo non saranno nemmeno uno a scuola. Rimane un mistero, infine, il motivo per il quale si continua a limitare il servizio delle classi ‘Primavera’. La risposta, probabilmente, è la stessa che porta a mettere a disposizione dell’utenza potenziale appena una scuola su quattro: la mancanza di risorse e di investimenti. Quella che ci porta a dire – conclude il sindacalista – che non bastano le linee guida e i nuovi principi per rilanciare la scuola fino a sei anni”.