VECCHIE E NUOVE POVERTÀ, REDDITO DI INCLUSIONE E POLITICHE SOCIALI

La povertà è un fenomeno sociale complesso che dipende da diversi fattori. Non esiste una sola povertà, bensì “le povertà”. Esse non sono legate alla sola mancanza di reddito ma sono anche strettamente connesse con l’accesso alle opportunità e, quindi, con la possibilità di partecipare pienamente alla vita economica e sociale del Paese.
Eugenio Scalfari ha messo in luce che i poveri, sin dai tempi remoti, sono sempre stati una palla al piede della Democrazia. Evidenziava che «i ceti dirigenti e possidenti consideravano la povertà come una sorta di schiavitù. I poveri non potevano esprimersi e partecipare alla vita pubblica e alle istituzioni che la guidavano. Erano tutt’al più carne da cannone quando c’erano le guerre. Le persone con scarsi redditi sono giuridicamente libere ma non hanno la capacità di esserlo».
La crisi economica, la disoccupazione, la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la contrazione dei consumi, hanno esposto sempre più individui ad una condizione di vulnerabilità e povertà mettendo in luce il diffondersi di condizioni di “nuova povertà”, diverse da quella del passato poiché non più residuali e in qualche modo a-temporali.
Occorre, quindi, distinguere tra vecchie e nuove povertà.
In passato, infatti, la definizione di povertà era esclusivamente legata a carenze di risorse economiche. Oggi, con un tessuto societario molto più complesso, per povertà s’intende l’impossibilità delle persone a partecipare alla vita sociale con conseguente esclusione dalla società. Ciò, inevitabilmente, provoca il passaggio da inclusione ad esclusione sociale.
Il rapporto sulla Povertà in Italia mostra una situazione generale peggiorata, a partire dal 2008. L’11,1% delle famiglie definite relativamente povere, il 5,2% sono povere in termini assoluti ma il dato che maggiormente colpisce è il 7,6% di popolazione che viene definita come “quasi povera”.
Questa percentuale mostra come la crisi della società salariale moderna, abbia indebolito le politiche sociali moltiplicando la vulnerabilità, allargando le fasce sociali soggette a rischio. In particolare appare come si sia dilatata la zona di vulnerabilità, coinvolgendo persone che fino ad un determinato momento erano inserite all’interno di una stabile vita sociale e professionale e che oggi si trovano invece a confrontarsi con situazioni di precarietà, disoccupazione, emarginazione. Come ha sostenuto anche Richard Sennet: “il fallimento non è più una prospettiva normale solo per i poverissimi o per le persone afflitte da problemi, ma è diventato un evento anche nelle vite della classe media”.
Le esigenze di competitività, concorrenza e la riduzione delle possibilità di impiego che caratterizzano lo scenario sociale contemporaneo tendono, infatti, ad invalidare molte persone che sono condannate ad una precarietà permanente e ad una insicurezza perpetua in assenza di un mercato del lavoro organizzato e funzionalmente orientato anche alle politiche attive.
L’esclusione sociale rischia quindi di diventare un processo che non coinvolge più solamente coloro che si collocano ai livelli più bassi della stratificazione sociale, ma anche persone che erano state fino a questo momento inserite nel circuito del lavoro e del consumo e che si trovano ora privi di supporti, di appartenenza e di legami sociali. Ciò che era impossibile un tempo oggi può verificarsi con qualche probabilità: si può essere poveri pur con la casa ed il lavoro.
Per affrontare ciò le politiche nazionali, dietro la spinta dell’alleanza contro la povertà (di cui fa parte la Cisl), hanno messo in campo interventi di inclusione attiva, finalizzati alla graduale conquista dell’autonomia. Tra le misure di sostegno al reddito, in particolare, il Reddito di inclusione quale il REI, rappresenta il primo strumento nazionale e permanente di contrasto alla povertà dal carattere universale. Esso non è solo un sussidio economico ma soprattutto un programma di inserimento sociale e lavorativo che punta alla riconquista dell’autonomia delle famiglie più vulnerabili attraverso la valorizzazione e lo sviluppo delle competenze.
È questa la strategia alla base del Reddito di inclusione (REI). Una misura che, in questa prima fase di applicazione, si rivolge ad un bacino di 1,8 milioni di persone e 500mila nuclei famigliari, e che da luglio 2018, grazie alle modifiche previste dalla legge di bilancio, potrà ampliare la sua portata raggiungendo una platea di potenziali beneficiari pari a oltre 700mila famiglie, per un totale di 2,5 milioni di persone.
Occorre, pertanto, costruire una rete di servizi in grado di aiutare le persone a uscire dalle condizioni di difficoltà e povertà. I dati cittadini ci parlano di casi di povertà che aumenta di anno in anno.
La classe d’età più colpita dal fenomeno è la fascia 45-55 anni; è questo il caso di persone che perdono il lavoro e non riescono a trovarne uno nuovo.
I numeri di richiesta di accesso al Rei, ci danno contezza di quale sia il tasso di povertà raggiunto in città e rimbalzano alla nostra coscienza che non è più tempo di attendere o rimandare. La misura di contrasto alla povertà messa a punto dal Governo non può, da sola, bastare.
Fondare solo su essa significa favorire assistenzialismo ormai anacronistico.
Il Rei deve accompagnare un preciso disegno di politica sociale cittadina che ha il dovere morale di rispondere in termini di opportunità aderenti alla realtà cittadina. Le politiche sociali hanno il compito di agire sul bisogno, di bersagliarlo.
“La rete dei servizi deve camminare di pari passo al contributo economico. Il rischio, in caso contrario, è quello di riservare al cittadino un ruolo di sudditanza in cui gli si dice che per risollevarsi basti partecipare ad un programma costruito per lui in cui occorre che pensi come pensiamo, agisca come agiamo, si muova come muoviamo.
Forse è giunta l’ora di capovolgere questa visione. Chi è nel bisogno non è in posizione di sudditanza. Ha semplicemente il diritto di vivere in un contesto che gli restituisca la dignità di esser persona.
Le nuove politiche devono promuovere la dignità della persona che passa dal suo essere detentore di una verità esistenziale, umana che non è diversa da quella degli altri. la dignità della persona si promuove anche e soprattutto attraverso il lavoro, attivando le risorse non solo umane ed esaltanti la vocazione territoriale.

Tonino Genovese
Segretario Generale Cisl Messina