Il rapporto Eurydice boccia la scuola italiana: docenti-nonni, precariato lungo

L’Italia continua a guardare all’Europa solo per quello che gli fa comodo: se lo facesse a tutto tondo, scoprirebbe che ci sono delle tendenze in atto che il nostro Paese continua ad ignorare, continuando a mantenere, come nel caso della scuola, delle posizioni superate e in splendida solitudine. È il caso dell’ultimo rapportoEurydice, sulla professione docente, dal titolo “Teaching Careers in Europe: Access, Progression and Support”: il testo, pubblicato in queste ore, illustra le principali sfide a livello nazionale nella domanda e offerta di docenti e i modi con cui i sistemi educativi le affrontano attraverso politiche di pianificazione preventiva.

LE CONCLUSIONI DEL RAPPORTO EURYDICE
Lo studio sovranazionaleesamina quali sono i requisiti per diventare insegnante, le condizioni di reclutamento e di lavoro, nonché lo sviluppo e il supporto professionale: esplora le opportunità di sviluppo di carriera degli insegnanti, sia in termini di progressione gerarchica e diversificazione dei compiti, sia la definizione e l’uso dei quadri di riferimento delle competenze degli insegnanti. Il rapporto analizza, inoltre, i ruoli e il funzionamento della valutazione dei docenti.

Tra le principali sfide nella domanda e offerta di insegnanti ce ne è una nella quale l’Italia primeggia (e non ce ne è da andare fieri): la carenza e l’invecchiamento della popolazione docente. Inoltre, se in diversi Paesi europei si registra la “carenza di studenti iscritti nei percorsi di formazione iniziale per insegnanti e la tendenza ad abbandonare la professione”, nonché una distribuzione sbilanciata di insegnanti tra materie e/o aree geografiche, conseguente anche al problema più generale dell’attrattività della professione, in Italia chi vuole insegnare continua a dovere mettere in conto l’alta possibilità di vivere tanti anni di precariato.

Per ovviare a questo problema,molti Paesi del vecchio Continente prevedono una pianificazione preventiva su base annua e a più lungo termine che può risultare più adeguata per affrontare problemi strutturali: una proiezione che in Italia è stata realizzata, con la Legge 107/2015, non contemplata dal rapporto, però solo per il nuovo reclutamento, ignorando, anzi respingendo, una bella fetta di precariato storico, cioè decine e decine di migliaia di docenti delle graduatorie d’istituto.

Ma l’aspetto più incongruente tra il nostro Paese e il resto d’Europa è sul percorso per diventare nuovi insegnanti. La strada principale inizia comunemente con il completamento della formazione iniziale: in quasi la metà dei sistemi educativi i docenti sono infatti già “pienamente qualificati” al termine del percorso formativo. Nei rimanenti 23 sistemi sono richiesti step aggiuntivi: in 17 sistemi i laureati della formazione iniziale devono dimostrare la loro capacità di insegnare tramite un processo di accreditamento, certificazione, registrazione o esame nazionale. Ma solo in sei Paesi, tra cui l’Italia, agli insegnanti viene richiesto di superare un concorso. Con il paradosso, sempre nel Belpaese, di una formazione triennale post-concorso, al termine della quale si può anche essere respinti.

Inoltre, è significativo che un terzo dei sistemi educativi offra percorsi alternativi per abilitarsi come insegnanti. Questi sono normalmente organizzati o come programmi professionali brevi oppure come programmi basati sul lavoro. Mentre da noi, si continuano a respingere tutti coloro che si sono formati sul campo, hanno conseguito abilitazioni e specializzazioni, e hanno superato, anche abbondantemente, i 36 mesi di servizio richiesti della stessa Unione Europea per l’accesso automatico nei ruoli dello Stato di appartenenza.

Per quanto riguarda la carriera, si legge nellasintesi italiana, dalla ricerca è emerso che in tutti i Paesi, tranne la Turchia, gli insegnanti hanno l’opportunità di diversificare i loro compiti ed essere incaricati di ulteriori responsabilità in aggiunta alle loro attività di insegnamento. Questa diversificazione delle responsabilità può includere, ad esempio, “l’assunzione di ruoli di mentoring, pedagogico, metodologico o manageriale. In genere, ricevono un aumento di stipendio dal momento che si spostano a un livello superiore nella struttura della carriera”.

Chiare indicazioni giungono anche sul fronte dell’aggiornamento professionale obbligatorio:nella stragrande maggioranza dei sistemi educativi europei, la formazione continua è considerata un dovere professionale e, spesso, gli insegnanti hanno l’obbligo di frequentare un minimo di ore all’anno di attività formative. I Paesi hanno sviluppato numerosi incentivi e misure di sostegno per incoraggiare la partecipazione, come corsi gratuiti, la possibilità di prendere parte alle attività di formazione durante l’orario di lavoro, aumenti di stipendio e promozioni.

Infine, ulteriori misure di sostegno per lo sviluppo e il miglioramento delle pratiche professionali sono disponibili per gli insegnanti nella maggior parte dei paesi europei. Tale sostegno può essere offerto nelle scuole da professionisti specializzati, insegnanti qualificati. È anche diffuso in tutta Europa un sostegno specifico per far fronte ad altre situazioni problematiche della professione docente come, ad esempio, problemi personali, conflitti interpersonali o l’insegnamento ad alunni con difficoltà di apprendimento.

Il quadro che emerge dal rapporto Eurydice non fa altro che alimentare il rimpianto per quanta strada l’Italia sta perdendo in fatto di istruzione e formazione rispetto alle aree nazionali più vicine, ma anche rispetto all’intera area continentale di cui fa parte. A partire dall’eccessivo innalzamento dell’età media dei docenti. E in Italia, guarda caso, ci ritroviamo ben al di sopra dei 50 anni, collocandoci come i più “vecchi” d’Europa. È un dato di fatto che cozza con l’esclusione, per volere del Miur, dei giovani laureati dall’ultimo concorso a cattedra, salvo tornare sui propri passi con il prossimo, figlio della Legge 107/2015. Ma che comunque porterà in cattedra i nuovi insegnanti solo dopo un lungo percorso ad ostacoli.

Fa pensare, poi, che solamente in sei Paesi, tra cui l’Italia, agli insegnanti venga richiesto di superare un concorso per accedere alla professione: quella che viene tacciata dai nostri governanti come una sanatoria superata dal tempo, quale può essere il concorso riservato o l’accesso automatico dopo trentasei mesi, come indica da tempo Bruxelles, in diversi altri Paesi è la norma. Basta dire che oltre il 30% dei sistemi educativi offre percorsi alternativi per abilitarsi come insegnanti. È altrettanto indicativo, poi, che nel 99% d’Europa possono diversificare i loro compiti ed essere incaricati, previo compenso ulteriore, di eccessive responsabilità in aggiunta alle loro attività di insegnamento. Come non può passare inosservato il dato sulla formazione continua considerata in Europa “un dovere professionale”. E come tale incentivata e supportata in modo adeguato.

In maggioranza, i governi non fanno problemi a proporre incentivi e misure di sostegno per aggiornare la professione: si va dai corsi gratuiti, alla possibilità di prendere parte alle attività di formazione durante l’orario di lavoro, sino agli aumenti di stipendio e a vere e proprie promozioni. Tutte misure che in Italia sono state appiattite dal bonus annuale dell’aggiornamento, da 500 euro complessivi, che non può coprire tutti questi benefit. Come non possono bastare gli aumenti stipendiali, considerando che quelli concordati lo scorso 9 febbraio, dopo quasi dieci anni di blocco, risultanoun insulto alla professione.

È, infine, tutt’altro che marginale, sempre per il nostro Paese, il rammarico per la mancata adozione di figure a supporto dell’insegnamento,anche alla luce delle ultime ricerche che correlano la professione del docente al maggiore insorgere di malattie psichiatriche ed oncologiche, per via dall’alta dose di stress che comporta stare dietro alla cattedra con 25-30 alunni. Figure che darebbero un apporto decisivo in caso di disagi derivanti dal comprovato stress da cattedra.

“La nostra scuola – ricorda Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – ha estremo bisogno di esperti, professionisti specializzati, insegnanti qualificati, ma continua a tenerli lontano dagli istituti. Come non si ha nemmeno il sentore di cosa possa essere un “sostegno” personale alla professione, soprattutto laddove vi sono difficoltà oggettive con l’utenza e tutto il territorio, con alti tassi di alunni stranieri e di abbandono scolastico. Inoltre, non si comprende il motivo per cui si debba intendere la selezione quasi come un canale punitivo e non un viatico organizzato di formazione e di crescita verso chi è determinato a svolgere questa professione.La stessa formazione in itinere, con il bonus annuale dell’aggiornamento previsto dalla Buona Scuola, è stata fatta passare come una concessione, mentre nel resto d’Europa è la norma, peraltro con incentivi e facilitazioni di ben altro spessore”.

“E che dire dell’età sempre più avanzata dei nostri docenti? Purtroppo andrà sempre peggio, perché all’eccesso di anni di precariato, non certo ridotti dal nuovo reclutamento, si somma il mancato allargamento, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, dei beneficiari dell’Ape Social: i nostri docenti di scuola primaria e secondaria, in pratica, andranno tutti in pensione a 70 anni o con almeno 43 anni di contributi, incrementando il record della vergogna, tutto italiano, dei docenti-nonni costretti a rimanere in cattedra loro malgrado”, conclude il sindacalista autonomo.