Dopo tredici anni di amministrazione militare del Kosovo e la spesa di ingenti risorse finanziarie, la NATO riconosce di non essere più in grado, con le forze attuali, di evitare la degenerazione del conflitto tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. Così, alla vigilia delle prossime elezioni politiche in Serbia, il comando generale dell’Alleanza atlantica annuncia che dal primo maggio verrà rafforzato il dispositivo di uomini e mezzi che presidiano strade e villaggi del Kosovo (KFOR – Kosovo FORce). Secondo Bruxelles, saranno quasi 700 gli uomini dei corpi di pronto intervento di Germania e Austria che raggiungeranno la mini-repubblica balcanica dichiaratasi indipendente dalla Serbia nel 2008.
“Nel valutare la situazione odierna, la NATO e l’Unione Europea si sono rese conto che le forze KFOR sul campo potrebbero non essere sufficienti per rispondere in modo appropriato a eventuali incidenti e scontri in Kosovo, legati alle elezioni in Serbia”, ha ammesso il portavoce del Comando centrale militare tedesco, Hauke Bunks.
Il dispositivo KFOR prevede dal 1° marzo 2011 due Multinational Battle Groups, di cui uno a conduzione italiana. Attualmente, la missione vede schierati 31 paesi con 5.500 uomini. La Germania è il paese impegnato con il maggior numero di militari, 1.300, più altri 550 che giungeranno nei Balcani tra meno di una settimana. Seguono poi l’Italia con meno di 1.000 uomini e gli Stati Uniti con 800. Alla forza d’intervento NATO si aggiungono poi i 3.200 uomini della missione EULEX dell’Unione europea (European Union Rule of Law Mission in Kosovo), con il compito di “monitorare e guidare le nascenti istituzioni del Kosovo nei campi della Polizia, della Giustizia e della Dogana”. La missione europea ha preso il via il 4 febbraio 2008 (tredici giorni prima, cioè, della dichiarazione unilaterale d’indipendenza) ed opera, sostanzialmente, sotto il comando e la direzione della NATO. Inizialmente a capo di EULEX venne chiamato il generale francese Yves de Kermabon, dal 2004 al 2005 Comandante dell’operazione KFOR. L’odierno responsabile EULEX è il connazionale gen. Xavier Bout de Marnhac, capo KFOR nel biennio 2007-2008.
Nel caso di un inasprimento del conflitto tra le comunità albanesi e serbe, l’Alleanza Atlantica potrebbe chiamare all’Italia un maggiore impegno in Kosovo per i prossimi 5-6 mesi. Le forze armate italiane sono di base a Pec-Peja, nella parte occidentale della repubblica. Personale dell’Aeronautica militare della cosiddetta Task Force “Air” opera invece nell’aeroporto AMIKo di Djakovica in supporto e assistenza ai velivoli dei partner NATO. Nello scalo di Djakovica è presente anche il Gruppo elicotteri dell’Aviazione dell’Esercito denominato Task Force “Ercole”.
Gli altri centri operativi delle forze KFOR sorgono a Lipljan, Novo Selo, Prizren e Urosevac. Sotto il comando e la direzione dell’US Army Corps of Engineers, sono stati completati di recente i lavori di costruzione della più grande e moderna installazione militare NATO in tutta l’area balcanica: si tratta di “Camp Bondsteel”, nella regione meridionale del Kosovo, quasi alla frontiera con la Macedonia. La struttura si estende in un’area di 955 acri (poco meno 4.900.000 metri quadri) ed è in grado di ospitare sino a 5.000 uomini tra militari, civili e contractors. Nuova sede del comando generale di KFOR, “Camp Bondsteel” è una vera e propria cittadella autosufficiente: ospita numerosi magazzini e depositi di armi e munizioni, caserme e aree residenziali per i familiari dei militari, scuole, centri sportivi e commerciali e un grande ed attrezzato ospedale militare.
La nuova base kosovara avrà il compito di proiettare le forze terrestri e aeree USA e NATO in un’area compresa tra l’Adriatico e il Caucaso. Come evidenziato da alcuni analisti, la sua localizzazione consente di porre sotto controllo due corridoi terrestri ed energetici di importanza strategica per l’Occidente: quello progettato dalle imprese tedesche (e lautamente finanziato dall’Agenzia europea per la ricostruzione) che congiunge, via Belgrado, il porto rumeno di Costanza ad Amburgo, e quello “statunitense” (con fondi USAID) sulla rotta Bulgaria-Macedonia-Albania. Le azioni di guerra alleate in Kosovo si svilupparono nel corso della primavera 1999. Secondo il Comando supremo dell’Alleanza, in 78 giorni furono lanciate più di 38.000 sortite aeree; 900 i velivoli NATO impegnati, 600 dei quali di pertinenza delle forze armate USA. Buona parte degli strikes partirono da basi aeree italiane (Aviano, Gioia del Colle e Sigonella in primis) e da unità navali dislocate nell’Adriatico. A dirigere le operazioni, il Combined Allied Operations Center installato ad hoc all’interno dell’aeroporto “Dal Molin” di Vicenza, oggi al centro dei lavori di trasformazione nella base-comando della 173^ brigata aviotrasportata dell’esercito USA e delle forze terrestri di USAFRICOM destinate al continente africano. Alla guerra parteciparono per la prima volta i cacciabombardieri stealth B-2, fatti decollare dalla base aerea di Whiteman (Missouri) e riforniti in volo da aerei cisterna USA e NATO provenienti da basi italiane. Battesimo di fuoco anche per i giganteschi aerei cargo C-17 Globemasters , che trasportarono in Albania e Macedonia gli oltre 5.000 militari e gli elicotteri d’assalto poi utilizzati per l’invasione e l’occupazione del Kosovo. A oggi è ancora ignoto il numero dei civili che furono uccisi durante le operazioni aeree alleate in Serbia e Kosovo. Secondo l’organizzazione non governativa statunitense Human Rights Watch le vittime dei caccia NATO sarebbero state tra 489 e 528. Anonimi “effetti collaterali” di un conflitto-pantano insensato, la cui risoluzione manu militari appare sempre più lontana.
Antonio Mazzeo