All’on. Salvini e a tutti i detrattori delle Prefetture vorrei sottoporre questa bella lettera dello storico ed editorialista SERGIO ROMANO sul Corriere della Sera del 30/9/2010, in risposta ad un mio quesito specifico a proposito dei Prefetti. Martino Pirone – 27.12.2013
<<Egregio dott. Sergio Romano, (CORRIERE DELLA SERA) Ogni tanto qualcuno rinnova la proposta di abolire i prefetti, anche per ridurre le spese pubbliche. Queste persone, richiamano il pensiero espresso da Luigi Einaudi con il suo articolo «Via il prefetto» pubblicato con lo pseudonimo «Junius» il 17 luglio 1944 sulla Gazzetta Ticinese. L’ articolo con lo pseudonimo Junius è stato realmente scritto dal futuro presidente della Repubblica? Le motivazioni addotte in quell’ articolo si possono ritenere valide anche oggi? È vero o no che ripetere ciò che sosteneva Junius: «Non c’è democrazia fin che ci sono i prefetti» è errato? Anzi è vero il contrario, perché loro, essendo apolitici, sono i tutori delle leggi emanate dal Parlamento e dal governo. Martino Pirone
risponde Sergio Romano
LA POLEMICA CONTRO I PREFETTI MA SONO ANCORA UTILI
Caro Pirone,
Junius è lo pseudonimo di cui Luigi Einaudi si servì per numerose lettere raccolte in un volume dell’ editore Laterza apparso nel 1920 e ristampato nel 1953. L’ autore lo aveva preso a prestito da un polemista inglese del Settecento che così firmava le lettere indirizzate a una gazzetta londinese (il Public Advertiser) sul modo in cui i pubblici poteri avevano la cattiva abitudine di violare i diritti dei cittadini inglesi. Era uno pseudonimo liberale che il primo presidente della Repubblica italiana amava e che usò anche verso la fine della Seconda guerra mondiale. La battaglia contro i prefetti fu quindi una battaglia liberale. Ma ebbe luogo in anni in cui i funzionari del ministero degli Interni erano alquanto diversi da quelli d’ oggi. Rappresentavano anzitutto lo Stato centralizzato e autoritario, ispirato al modello francese, che la classe dirigente del Regno ritenne indispensabile per il consolidamento dell’ unità; e ne erano anzi la chiave di volta. Più tardi, quando la vita politica cominciò a perdere la tensione morale degli anni del Risorgimento, i prefetti furono lo strumento di cui il ministro degli Interni poteva servirsi per spegnere proteste, prevenire disordini, ammonire i dissidenti più «fastidiosi», indirizzare il voto degli elettori verso i candidati preferiti dal governo. L’ uomo che se ne servì magistralmente, nel bene e nel male, fu Giovanni Giolitti, un leader politico che raramente rinunciò, anche quando era presidente del Consiglio, a controllare il ministero degli Interni. Erano così bravi e affidabili che persino Mussolini preferì servirsi dei prefetti di Giolitti, quando voleva tastare il polso del Paese o trasmettere i suoi ordini alla periferia, piuttosto che dei federali del partito fascista. Negli ultimi decenni, soprattutto dopo la creazione delle Regioni (1970), hanno perduto una buona parte dei loro vecchi poteri, ufficiali e ufficiosi. Si è detto spesso da allora che in una Italia decentrata e tendenzialmente federale, sarebbero stati inutili se non addirittura dannosi. A me sembra che proprio il federalismo esiga la loro presenza. Non vi è Stato federale in cui il potere centrale e i poteri locali non siano continuamente impegnati in scontri e divergenze sulle rispettive funzioni e prerogative. I prefetti sono al tempo stesso una indispensabile antenna per il governo e, grazie alla loro conoscenza delle realtà locali, i migliori mediatori possibili. A me sembra che lo abbiano capito e che stiano facendo un buon lavoro. Ne vedo una conferma nel fatto che di loro si parla poco. Per un curioso paradosso l’ Italia è ormai il Paese in cui la persona di cui non si parla è molto spesso quella che fa più seriamente il suo lavoro. RIPRODUZIONE RISERVATA
Romano Sergio
Corriere della Sera – (30 settembre 2010) – Pagina 43