Piuttosto che alle sirene del declino dovremmo prestare attenzione ai messaggi e ai protagonisti dell’Italia che funziona e che in questi anni di crisi hanno tenuto in piedi il Paese. L’Italia deve cercare di valorizzare gli asset dei quali dispone che sono unici e irripetibili. Cultura, manifattura, turismo e agricoltura sono i pilastri della nostra economia e, insieme, i fattori determinanti per una ricostruzione del ruolo dell’Italia nel mondo. Ma non andremo da nessuna parte se non sosterremo le nostre imprese manifatturiere, assicurando loro i servizi e il credito necessari a favorirne la proiezione internazionale, e se non le libereremo dai mille vincoli e dal peso di una burocrazia soffocante e di una tassazione opprimente. Non andremo da nessuna parte se non cominceremo a pensare al turismo come un asse portante dello sviluppo. Se non ammoderneremo e non metteremo in rete le nostre strutture ricettive e dispiegheremo a livello internazionale adeguate campagne di promozione e di marketing. Superando, quindi, la ridicola frammentazione che consente a regioni e città di sperperare risorse enormi per improbabili singole campagne di comunicazione o di aprire inutili sedi in giro per il mondo. Non andremo da nessuna parte se non capiremo che con la “cultura si mangia”, eccome. Al contrario di ciò che pensava un ministro di un precedente governo. Soprattutto in un Paese al quale la storia ha affidato più della metà del patrimonio artistico e culturale del mondo. E addolora sapere che il Louvre ha, da solo, più visitatori di tutti i musei italiani messi insieme. E addolora sapere il numero impressionante delle opere di raro valore relegate negli scantinati per l’assenza degli spazi espositivi necessari ad accoglierle. Il budget della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma è di 1,3 milioni di euro, quello della Biblioteca Nacional de España di 52 milioni, quello della British Library di 120 milioni e quello della Biblioteca Nazionale di Francia di 230 milioni. Non andremo da nessuna parte se non difenderemo la nostra agricoltura e le nostre produzioni agroalimentari dalla interessata ottusità degli uffici comunitari, che ostacolano la tutela delle nostre produzioni e se non combatteremo l’Italian sounding e le agromafie che stanno silenziosamente ingoiando pezzi interi della nostra economia. Non andremo da nessuna parte se penseremo di fare cassa con gli ultimi gioielli di famiglia e ci riferiamo a Eni, Finmeccanica, Enel (che dovrebbero essere considerati monumenti nazionali). E, infine, non andremo da nessuna parte se non avremo il coraggio di ammettere che la riforma del Titolo V della nostra Costituzione è stata un gravissimo errore e se non riporteremo sotto controllo la follia delle Regioni. Ma tutto questo rappresenta solo un appunto, neppure un elenco, di quello che c’è da fare. Tanti altri ancora sarebbero i temi e le urgenze da affrontare. La politica sembra dar segni di ringiovanimento, almeno anagrafico, e i nuovi protagonisti, oltre che poter dire “io non c’ero” per il passato, non avranno alibi e giustificazioni per ciò che faranno nell’immediato futuro. Recentemente, il Presidente della Confindustria, Squinzi, ha affermato che la nostra economia è come se fosse uscita da una vera e propria guerra mondiale. Bene. E allora regoliamoci di conseguenza e cerchiamo di rifare quello che i nostri padri hanno saputo fare negli anni Cinquanta e Sessanta, ricostruendo un Paese distrutto. Ma per fare ciò, occorre recuperare anche il senso di coesione, della comunità e dello Stato che animò quegli uomini, abbandonando il populismo, il qualunquismo e la demagogia che spesso inducono in comportamenti al limite del ridicolo nella ricerca di un facile e momentaneo consenso. Così, per assecondare le istanze più becere, si pensa di risparmiare qualche soldo impedendo alle Frecce Tricolori di partecipare alla Festa della Repubblica o si ordina ai corazzieri, con la loro pesante armatura, di rinunciare ai cavalli e marciare a piedi sotto il sole del 2 giugno, mentre i consiglieri e i presidenti di Regione sperperano milioni di euro in nastri e lustrini. Per non scendere in particolari intimi. Quando le Istituzioni si acconciano a queste derive, lo Stato perde di autorità, di autorevolezza e di credibilità. Ma dev’essere chiaro che occorre ricostruire non solo materialmente ma anche moralmente l’Italia attraverso la ripresa di una seria ricerca etica che ci impegni tutti nella riflessione su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è giusto e su ciò che è ingiusto, su ciò che è bello e su ciò che è brutto. Ma, soprattutto, dobbiamo liberarci dal nichilismo e dal pessimismo che distruggono il futuro. E, come diceva A. Gramsci, dobbiamo concentrare l’attenzione nel presente così come è. Se si vuole trasformarlo.