In Italia nell’ultimo triennio la crisi economica ha provocato una maggiore disuguaglianza sociale e territoriale, con l’andamento scolastico che costituisce l’esempio calzante dell’allargamento del gap. A sostenerlo sono due studi nazionali, presentati oggi, che confermano come il sistema educativo stia perdendo la tradizionale capacità di garantire opportunità occupazionali e di agire come strumento di ascensione sociale.
Dal "Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes 2014)", realizzato dal Cnel e dall’Istat, è emerso che "come durante tutto il periodo di crisi, continua ad aumentare in misura preoccupante la quota di ragazzi che non studiano e non lavorano, soprattutto nel Sud, dove in molte regioni oltre un terzo dei giovani si trova in questa situazione": nel 2013 la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano (Neet) ha avuto un aumento ancora più consistente del recente passato raggiungendo il 26%, più di 6 punti percentuali al di sopra del periodo pre-crisi.
Sempre più marcato appare lo svantaggio delle regioni del Sud e delle Isole rispetto ai diversi livelli di competenza, sia alfabetica sia numerica e informatica e i dati dell’Ocse tracciano un quadro allarmante indicando che solo un terzo degli italiani tra i 16 e i 65 anni raggiunge un livello accettabile di competenza alfabetica mentre un altro terzo è ad un livello così basso che non è in grado di sintetizzare un’informazione scritta. Pertanto, secondo il rapporto Cnel-Istat, diventa sempre più "necessario attivare programmi adeguati mirati alla riduzione delle disuguaglianze sociali, territoriali e di genere tra i giovani e di investire in formazione degli adulti per diminuire gli enormi divari generazionali nei livelli di competenze alfabetiche, numeriche e informatiche".
Preoccupanti sono i dati emessi, sempre oggi, dal Censis. Dallo studio si evince che la scuola non riesce a svolgere la funzione di riequilibrio sociale per i ragazzi provenienti da famiglie svantaggiate: l’abbandono scolastico tra i figli dei laureati è un fenomeno marginale (riguarda solo il 2,9%), ma sale al 7,8% tra i figli dei diplomati, e interessa quasi uno studente su tre (il 27,7%) se i genitori hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo.
Inoltre, dice sempre il Censis la sfiducia di fondo favorisce gli abbandoni scolastici : risulta "disperso" nell’arco di un quinquennio il 27,9% degli studenti, pari a circa 164mila giovani. Complessivamente, si può stimare che la scuola statale ha perso nel giro di 15 anni circa 2,8 milioni di giovani: di questi appena 700mila hanno poi proseguito gli studi nella scuola non statale o nella formazione professionale, oppure hanno trovato un lavoro. Va male anche l’esito universitario: tra i 30-34enni, gli italiani laureati sono il 20,3% contro una media europea del 34,6%. E l’andamento delle immatricolazioni mostra un significativo calo negli ultimi anni. Chi può va a studiare all’estero: tra il 2007 e il 2011 il numero di studenti italiani iscritti in università straniere è aumentato del 51,2%, passando da 41.394 a 62.580.
Anief ritiene questi dati una conferma di quanto espresso da tempo: bisogna tornare ad investire sull’istruzione, incrementando la spesa complessiva rispetto al Pil; va attuata una riforma dei cicli, anticipando la primaria, quando gli alunni hanno ancora 5 anni anziché 6, ed estendendo l’obbligo scolastico dagli attuali 16 fino ai 18 anni di età; occorre stanziare fondi maggiorati per l’orientamento scolastico, attuare una vera riforma dell’apprendistato puntando sull’alternanza scuola-lavoro nel triennio finale di tutte le scuole superiori; occorre poi introdurre un organico maggiorato, di docenti e personale Ata, nelle zone a maggiore rischio dispersione, quindi iniziando dal Sud e dalle Isole.
“Un maggior collegamento con il mondo del lavoro – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è fondamentale per permettere ai nostri giovani di uscire dal sistema scolastico, come accade in altri paesi avanzati, basti pensare alla Germania, già forniti di competenze minime spendibili nelle aziende. Non occorre però pensare che tutti i problemi siano così risolti: bisogna anche rivedere i centri dell’impiego, creando delle strutture in grado di intercettare le richieste del mercato del lavoro. E di comunicare i dati direttamente ai centri di formazione: è un passaggio centrale per combattere l’aumento dei Neet. Si decida, infine, di creare da subito dei Centri di formazione per adulti che la legge vorrebbe già in funzione: Anief ha denunciato appena il 6,6% dei cittadini italiani tra i 25 ed i 64 anni di età è oggi coinvolto nella formazione permanente. In Spagna sono quasi il doppio”.