Cresce inesorabilmente l’attesa media dei lavoratori italiani per vedersi rinnovare il contratto di categoria: oggi l’Istat ha fatto sapere che a dicembre i dipendenti a cui è scaduto sono diventati il 55,5% del totale, pari a 7,1 milioni (2,9 milioni solo nel pubblico impiego) e vanno ricondotti a 37 categorie distinte, di cui ben 15 relative alla Pubblica Amministrazione. L’Istituto nazionale di statistica ha sottolineato che prima di vedersi ‘aggiornare’ il contratto i tempi sono saliti a 37,3 mesi, ovvero oltre tre anni (a dicembre del 2013 erano invece 32,2 mesi).
Quest’attesa sta mettendo sempre più a dura prova la vita dei lavoratori e dell’intero Paese, perché “nella media del 2014 la retribuzione oraria è cresciuta dell’1,3% rispetto all’anno precedente” si tratta del minimo storico, ovvero della variazione più bassa dal 1982, anno d’inizio delle serie. E anche nell’ultimissimo periodo la situazione si è confermata a dir poco stagnante: “a dicembre le retribuzioni contrattuali orarie registrano un incremento tendenziale dell’1,3% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione”, ha concluso l’Istat.
Peggio di tutti stanno dunque i dipendenti pubblici, confermando in toto il ‘Conto annuale’, pubblicato pochi giorni fa dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, dal quale si evince che uno stipendio medio di uno “statale” è pari a 34.505. E a livello di singolo comparto, quello della scuola è messo peggio degli altri: accusando un anno di più di blocco contrattuale, che congela lo stipendio ai valori del 2009, e la mancata assegnazione dell’indennità di vacanza contrattuale, sospesa almeno fino al 2018, lo scorso anno i docenti e il personale Ata della scuola hanno avuto in media solo 29.468, addirittura 80 euro in meno dell’anno precedente (-0,3%). E sempre nella Scuola lo stesso saldo negativo si era registrato l’anno prima, ancora più vistoso (-2,6%).
E non si tratta di una riduzione generalizzata: perché, sempre nel 2013, i ministeriali, i magistrati e i vigili del fuoco hanno potuto contare su un incremento medio stipendiale dello 0,6 – 07%. Visti i presupposti, quindi, pensare di ridurre ulteriormente il potere di acquisto di chi opera nella scuola, sottraendogli l’unica forma di avanzamento di carriera, quale è lo ‘scatto’ stipendiale, equivarrebbe condannarli a vivere ai limiti della povertà. Anche perché nel frattempo l’inflazione sta correndo ad una velocità superiore alle loro buste paga di 4-5 punti percentuali. Quello che si apprestano a vivere i docenti e Ata della scuola sarà quindi un Natale ancora una volta amaro”.
Le differenze retributive si fanno sentire anche rispetto all’estero: già oggi a fine carriera i nostri docenti della scuola superiore percepiscono quasi 9mila euro in meno rispetto ai colleghi dell’area Ocde: un insegnante di ruolo laureato della scuola superiore italiana dopo 15 anni di servizio percepisce meno di 27mila euro lordi, mentre un collega tedesco con la stessa anzianità professionale circa il doppio. Ora, se non si agisce sul piano contrattuale e se non si mantengono gli scatti di anzianità, la forbice tenderà ad allargarsi.
E non si venga a dire che i docenti italiani guadagnano meno perché lavorano poco. L’Ocse ci dice che in Italia nella scuola primaria le 22 ore di insegnamento superano la media europea, pari a 19,6 ore; alle medie i nostri docenti stanno dietro la cattedra 18 ore a settimana, contro le 16,3 Ue; alle superiori l’impegno si equivale. In Germania e Francia, tanto per fare un esempio di Paesi a noi “vicini”, l’orario di insegnamento è inferiore a quello dei docenti che operano nella nostra penisola. E rispetto all’area Ocse il quadro non cambia molto: in Italia 770 ore alla primaria, contro le 790 di tutti i Paesi appartenenti; da noi 630 nella secondaria di primo grado contro i 709 Ocse; alle superiori 630 contro 664. E anche se si vanno a confrontare le ore aggiuntive alle lezioni – preparazione e correzioni dei compiti, esami, colloqui con le famiglie, consigli di classe, scrutini – risulta che i nostri insegnanti dedicano alla loro professione quasi 39 ore a settimana.
Alla luce di questi numeri, l’Anief ribadisce che è giunto il momento di dire basta alla realizzazione degli obiettivi di invarianza finanziaria a danno della categoria: già con il Contratto collettivo di lavoro, sottoscritto il 4 agosto 2011, si sono già fortemente penalizzati gli scatti stipendiali, andando a sacrificare, con l’accordo di quasi tutti i sindacati rappresentativi, il primo “gradone” dei neo-assunti. I quali per passare ad uno stipendio maggiore, qualora non abbiano svolto servizio di pre-ruolo, devono attendere oltre dieci anni.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, occorre “subito procedere allo sblocco dell’indennità di vacanza contrattuale per ancorare gli stipendi base della scuola all’inflazione degli ultimi sei anni. Stiamo parlando di un blocco irriguardoso, tra l’altro, anche rispetto alle indicazioni comunitarie che salvaguardano il legame tra lo stipendio base e l’aumento del costo della vita. Inoltre, la categoria non può contare più su indennità di funzioni centrali: non si premia, in pratica, la professionalità di chi si impegna ogni giorno nella scuola svolgendo funzioni superiori. Come i vicari dei presidi oppure le attività aggiuntive del personale Ata e la qualifica dei DSGA”.
“Come sindacato, poi, non siamo d’accordo all’intesa firmata dalle confederazioni Uil, Cisl e Confsal il 4 febbraio 2011, che ha dato vita, di fatto, all’abolizione degli scatti di anzianità con l’atto dell’indirizzo all’ARAN del ministro Brunetta, che ha portato alla cancellazione degli scatti di anzianità su cui sta puntando il Governo. Va infine superato il Contratto collettivo nazionale di lavoro, sottoscritto il 4 agosto da CISL, Uil e Gilda, che elimina il primo gradone stipendiale in cambio della cancellazione per una decina d’anni anni degli oneri di cui lo Stato dovrebbe farsi carico. Se diventeremo rappresentativi in occasione delle prossime elezioni Rsu di inizio marzo chiederemo proprio questo: sottoscrivere un nuovo contratto che tuteli gli interessi e la professione di un milione di dipendenti pagati oggi – conclude Pacifico – con uno stipendio ormai alle soglie del regime di povertà”.