Il 17 febbraio è una data che non deve uscire dalla nostra memoria, proprio adesso che a “sud di Roma” c’è gente che minaccia le nostre libertà, conquistate con tanta fatica e tanto martirio, come vedremo tra poco, e sulle quali è edificata la nostra democrazia – imperfetta, lacunosa, criticabile quanto si vuole, ma pur sempre palestra di confronto tra persone che si riconoscono portatrici di istanze tutto sommato legittime, anche se non condivise da tutti (e questo è il bello della democrazia e della libertà). E dunque: il 17 febbraio del 1600 veniva arso vivo sul rogo, a Roma, in campo dei Fiori, Giordano Bruno, frate domenicano, filosofo e scrittore – un uomo indomito che preferì morire, a 52 anni, di questa morte atroce piuttosto che ritrattare i suoi profondi convincimenti considerati eretici, che però, dimostreranno i secoli futuri, avevano molti spunti di preveggenza sul piano della scienza e non solo – e chissà che almeno negli ultimi cinquant’anni non abbiano ispirato anche alcuni chierici cattolici. Certo è che, sia pure con quattrocento anni di ritardo, il 18 febbraio del 2000, papa Giovanni Paolo II dichiarò che quel rogo “costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico”, anche se, ci tenne a precisare, alcune scelte intellettuali del Nolano si dimostrarono “incompatibili con la dottrina cristiana”. Il “mea culpa” della chiesa cattolica è un fatto importante, perché dimostra che l’idea della tolleranza, sostenuta con forza dall’Illuminismo francese del XVIII secolo, ha fatto breccia, finalmente, anche nella chiesa di Roma – e comunque si giudichi questo fatto, non è cosa da poco.
Giordano Bruno è un martire non solo della libertà di pensiero, ma soprattutto della libertà di parola, della libertà d’espressione. E non si consideri da poco questa precisazione. Infatti, finché la nostra scatola cranica è inaccessibile dall’esterno (e pare che ancora lo sia), possiamo pensare quel che vogliamo, senza andare incontro a noie di alcun genere. Forse possiamo anche mettere per iscritto ciò che ci attraversa la mente, senza che nessuno ci censuri, a patto che lo scritto resti ben custodito in un cassetto di casa nostra. Il problema si pone, invece – è evidente –, quando la persona vuole rendere pubblico ciò che ha elaborato nella propria mente, lo vuole discutere con altri, o vuole dimostrare gli errori, che essa ravvisa nell’altrui pensiero o prassi. E’ questa, è la libertà d’espressione che espose nel passato, e purtroppo torna a esporre anche oggi, le persone libere a ritorsioni violente, che possono costare loro anche la vita.
E’ a questo bene prezioso, indivisibile, insostituibile che deve portarci a riflettere questo 17 febbraio 2015, nel ricordo commosso e riconoscente di Giordano Bruno.
Ma c’è un altro 17 febbraio, che si lega anch’esso alla libertà.
Fu il 17 febbraio 1848, quando Carlo Alberto, re di Sardegna ecc. ecc. emanò le “Lettere patenti", in cui solennemente si affermava:
“I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici”. E anche se il documento si affrettava a precisare che “ Nulla è però innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”, per ricordare che nel Regno di Sardegna non era ammessa altra religione esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette", per ricordare che nel Regno di Sardegna non era ammessa altra religione che il cattolicesimo e che l’esercizio della fede valdese poteva al massimo essere tollerato nelle Valli valdesi, tuttavia, nel giro di cinque anni, anche a Torino, nella capitale del regno, fu eretto un tempio valdese, che fu inaugurato nel dicembre 1853 alla presenza degli ambasciatori di Prussia, Inghilterra, Paesi Bassi e Svizzera – nazioni protestanti che in vario modo avevano già aiutato i valdesi nei tempi passati e li sostenevano anche adesso. Queste “lettere patenti” posero fine a oltre cinque secoli di persecuzioni atroci subite dai seguaci di Valdo, che altra colpa non avevano che quella di voler pregare Dio e Gesù Cristo nel modo che ritenevano più giusto e di voler leggere i testi sacri nella lingua parlata tutti i giorni – un oltraggio per il potere sia ecclesiastico sia politico di allora. (E’ logico ricordare qui anche l’emancipazione degli ebrei concessa sempre da Carlo Alberto il 29 marzo 1848, che purtroppo fu calpestata 90 anni dopo dalle infauste, abominevoli leggi razziali del fascismo). Per un approfondimento della materia, posso rimandare a una mia noterella del 2009, dal titolo 17 febbraio 1848-2009 – festa della libertà per i Valdesi e anche per tutta l’Italia che mi sembra ancora attuale. Desidero solo sottolineare che è ancora cara ai Valdesi la proposta avanzata qualche anno fa allo Stato italiano, di fare di questa festa valdese una "giornata nazionale della liberta’ di coscienza, di religione e di pensiero". E di nuovo aggiungo – della libertà di espressione del pensiero!
In chiusura, torno a inchinarmi di fronte a tutti i martiri della libertà – civile, politica, religiosa- del passato e di oggi, con la speranza che non tocchi anche a noi, qui in Italia, di dover tornare a dare la vita per valori che pensavamo condivisi e assicurati. Ma se questa speranza andasse delusa, ebbene, allora che questi martiri diventino esempi fortificatori della nostra decisione di restare fedeli a questi valori che, soli, rendono la vita degna di essere vissuta.
Annapaola Laldi, scrittrice, cura per Aduc la rubrica “La Pulce nell’Orecchio”