Per le donne insegnanti c’è poco da festeggiare: presto in pensione a 67 anni e assunte anche fuori regione

Diventa sempre più in salita la strada delle donne che insegnano nella scuola pubblica: dopo la “stretta” introdotta dalla riforma Fornero, con l’innalzamento progressivo dell’età pensionabile, tanto che nel 2018 potranno lasciare il lavoro solo a 67 anni, con la Buona Scuola saranno decine di migliaia costrette ad essere assunte lontane dalla loro regione di appartenenza e costrette in larga parte a rimanervi per tre anni. E lo stesso vale per tutte quelle di ruolo che continuano a chiedere di avvicinarsi a casa nell’ultimo periodo, ma una norma anacronistica sui trasferimenti le continua a tenere lontane dai loro affetti.

Il sindacato chiede da tempo di applicare delle deroghe per il mondo della scuola, ma la politica che continua a prevalere, concentrata a risparmiare sulla pelle dei lavoratori, va verso la direzione opposta. Ricordiamo che nella categoria dei docenti, le donne rappresentano l’81,1%: se ci fermiamo all’organico di diritto, 665.332 posti, si tratta quindi di oltre mezzo milione di insegnanti. In Europa solo un Paese, l’Ungheria, conta una presenza maggiore di sesso femminile (82,5%).

Se ci si concentra sulla scuola d’infanzia, in Italia si stabilisce un record mondiale: solamente lo 0,4% di maestri sono uomini. Una presenza che alle superiori si riduce sensibilmente, ma sfiorando il 60% costituisce sempre la grande maggioranza. Anche in questo caso si tratta di una caratteristica tipicamente italiana: basti pensare che in Germania le donne di ruolo impegnate nella scuola secondaria di secondo grado sono appena il 46,2%.

A causa dei 200mila tagli di posti degli ultimi anni, inoltre, il loro reclutamento è diventato sempre più complicato: i docenti precari sono stati tagliati del 25%, mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%. Così il tempo di attesa che porta alla stabilizzazione si è allungato. Tanto è vero che oggi le nostre docenti con meno di 30 anni sono appena lo 0,5%: in
Germania sono il 3,6%, in
Austria e Islanda il 6%, in Spagna il 6,8%.

Ma anche in “uscita” il percorso delle donne insegnanti si fa sempre più difficile: quest’anno le norme per accedere all’assegno pensionistico hanno portato le lavoratrici del pubblico a lasciare il servizio a 63 anni e 9 mesi. Nel 2018 per entrambi i sessi serviranno quasi 67 anni: per comprendere l’enormità del numero, basta dire che 20 fa, prima della riforma Amato, le insegnanti potevano lasciare anche a 55 anni. Esemplare è la triste vicenda dei ‘Quota 96’, che a due anni e mezzo di distanza dall’introduzione della riforma Monti-Fornero ancora non trova luce.

Anche le proiezioni sono davvero pessime: tra 15 anni, nel 2030, si potrà accedere alla pensione di vecchiaia solo oltre i 68 anni; mentre per accedere all’assegno di quiescenza anticipato bisognerà aver versato attorno ai 44 anni di contributi. E già oggi i pochi fortunati che possono lasciare prima, si vedono quasi sempre decurtare l’assegno pensionistico di cifre non indifferenti, in media del 25%. Come se non bastasse, “per più di quattro pensionati su dieci l’assegno non arriva neppure a mille euro al mese”, oltre la metà (il 52%) sono donne, e “il potere d’acquisto delle pensioni è in caduta libera: in 15 anni è diminuito del 33%”.

Inoltre l’‘opzione donna’, reintrodotta dal Governo negli ultimi mesi, si è rivelata una beffa: la possibilità, prevista dalla legge 243 del 2004, per le lavoratrici con almeno 35 anni di contributi e 57 anni d’età di andare in pensione, ha avuto un prezzo davvero salato da pagare, fino al 39% di perdita dell’assegno pensionistico.

“Tutto ciò avviene – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – malgrado sia stato scientificamente provato che chi opera nella scuola svolge uno dei lavori più stressanti e a rischio burnout: è il mestiere che impegna di più in relazioni umane e nello sviluppo della persona. Ma paradossalmente è anche quello che è stato più sacrificato nell’altare dei tagli nella pubblica amministrazione. E poco conta che a pagare il prezzo di questo errore sono anche gli alunni, che si ritrovano una fetta sempre più grande di docenti demotivati e stanchi”.

In Italia, la correlazione tra stress da insegnamento e patologie è stata confermata dallo studio decennale ‘Getsemani’ Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti, da cui è emerso che la categoria degli insegnanti è quella che di più conduce verso patologie psichiatriche e inabilità al lavoro: dallo studio è emerso che ad essere stressati per il lavoro logorante sono, a vario titolo, il 73 per cento dei docenti. Quasi l’82% sono donne.