I segnali di ripresa ci sono. Qualche dato inatteso e contraddittorio (l’occupazione a febbraio) non muta l’impressione che la tendenza di fondo sia positivamente orientata. Tuttavia, se gli impulsi internazionali sono favorevoli, il futuro fiscale che in Italia ci siamo costruiti, getta una cupa ombra sulle concrete possibilità di tornare a crescere in modo apprezzabile. Il riferimento è al congegno delle cosiddette clausole di salvaguardia: se da qualche parte non si trovano risorse per circa 16 miliardi di euro a valere sul 2016, scatteranno automaticamente riduzioni di varie agevolazioni fiscali più cospicui incrementi dell’Iva, le cui aliquote passerebbero dal 10 al 12 e dal 22 al 23 (gettito atteso pari a 12,8 miliardi di euro per l’anno prossimo). Per quelli che non si occupano di finanza pubblica può essere utile un chiarimento: il governo ha redatto in passato un’ipotesi di quadro programmatico in cui uscite pubbliche e entrate forniscono uno sbilancio compatibile con gli obiettivi degli accordi internazionali. Approvato in Europa questo progetto, bisogna tenere fede all’impegno preso. O si risparmia sulla spesa, o si aumentano le tasse. Disgraziatamente, come l’esperienza Ici-Imu-Tasi insegna, e come resta vero per qualsiasi incremento d’imposta, al crescere della pressione fiscale si riducono le possibilità di ripresa. Vale la pena di ricordare il caso giapponese. Il governo aveva disegnato per il biennio 2014-2015 due incrementi dell’Iva. Il primo è entrato in vigore ad aprile del 2014 (dal 5 all’8 per cento) e immediatamente i consumi sono calati riportando il Giappone in recessione. Presone atto, il premier Abe ha ritenuto impraticabile il secondo aumento dell’Iva (previsto per l’ottobre 2015, dall’8 al 10 per cento) e, visto che taluni, nella sua maggioranza, facevano resistenza, ha sciolto le camere il 21 novembre, indetto nuove elezioni e, con il nuovo Parlamento e il nuovo esecutivo, già operativi il 24 dicembre, ha posticipato alla metà del 2017 l’ulteriore ritocco (il tutto in meno di 35 giorni). Qualcosa mi dice che difficilmente il nostro Premier, se verso novembre non avremo questi 16 miliardi aggiuntivi, si dimetterà per evitare l’aumento dell’Iva. Secondo me le cose potrebbero andare come segue (mi sia concessa qualche approssimazione). Considerando circa 400 miliardi di euro di nuove emissioni di debito pubblico all’anno, uno scarto tra la previsione del rendimento a circa il 3 per cento (il parametro con cui sono stati compilati i vecchi conti) e un tasso effettivo dell’1 per cento fornisce minori interessi per 8 miliardi (il 2 per cento di 400). Un po’ di gettito fiscale aggiuntivo deriverà dalla maggiore crescita economica (che il governo tende già oggi a sottostimare per avere a fine anno la sorpresa positiva; diciamo che una maggiore crescita di mezzo punto percentuale nel 2015 potrebbe portare 3-3,5 miliardi di euro di gettito fiscale aggiuntivo da utilizzare l’anno successivo). Infine, se il Pil crescesse più delle previsioni del governo anche il rapporto tra sbilancio spese-entrate e Pil sarebbe meno pesante di quello scritto nel programma, implicando che dei 16 miliardi da reperire originariamente solo 12-13 sarebbero davvero necessari. Quindi non si procederebbe ad alcun aumento dell’Iva. Tutto bene? Per niente. Se le cose andassero come descritto sopra resterebbero intatti gli sprechi e le inefficienze nella pubblica amministrazione. Deve essere un punto fermo, chiaro e inderogabile che le clausole di salvaguardia vanno neutralizzate attraverso la riduzione della spesa pubblica inutile e dannosa (che evidentemente c’è se a ogni giro di governo vengono nominati uno o più commissari straordinari alla spending review). Gli ulteriori risparmi vanno restituiti immediatamente ai legittimi e unici proprietari: i contribuenti in regola. Come? Mediante una riduzione sostenibile e generalizzata delle aliquote legali dell’Irpef (perseguendo con altri e specifici strumenti le politiche di ridistribuzione solidaristica o di contrasto alla povertà). Insomma, ogni azione deve avere un preciso obiettivo e il mezzo opportuno per conseguirlo: la cosa fondamentale è che l’Italia non può e non deve lasciarsi sfuggire l’opportunità di intraprendere il sospirato percorso di riduzione della pressione fiscale, condizione necessaria per una crescita significativa dei consumi e quindi dell’economia nel complesso.
Mariano Bella
Direttore dell’Ufficio studi di Confcommercio