Il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, continua a pontificare la riforma della scuola: nel farlo, in compenso, sta svelando giorno dopo giorno la cinica filosofia che sottende alla formulazione del testo di Legge 107/2015. Una delle sue ultime esternazioni riguarda la collocazione all’uso, si potrebbe dire, dei docenti. I quali, già dal prossimo anno scolastico verranno messi in cattedra non più solo sulla base dell’effettiva esperienza profusa dietro la cattedra, avvalorata da esperienze magari pluriennali e abilitazione all’insegnamento, ma, all’occorrenza, secondo il volere del dirigente scolastico. Il capo d’istituto, infatti, a partire dal 2016, quando entreranno in scena gli organici potenziati, potrà andare a “pescare” i candidati a lui più congeniali anche se privi di abilitazione, quindi solo in possesso del titolo studio.
“La riforma è un cambiamento culturale – ha detto il ministro -, perché noi proponiamo alla scuola italiana di diventare autonoma, e questo significa uscire dalle griglie della didattica contabile, in cui si conta un’ora in più o un’ora in meno, della didattica solo frontale, degli insegnanti incardinati nelle materie”. Inoltre, Giannini sostiene che “il cambiamento spaventa sempre tutti, soprattutto chi non vuole valutare ed essere valutato", ma è tempo di superare la "didattica contabile".
Per comprendere cosa intenda Giannini, quando dice di voler svincolare gli insegnanti delle materie, bisogna andare a consultare la riforma: il comma 79, in particolare, nella parte che dà facoltà al dirigente scolastico di “utilizzare i docenti in classi di concorso diverse da quelle per le quali sono abilitati, purchè posseggano titoli di studio validi per l’insegnamento della disciplina e percorsi formativi e competenze professionali coerenti con gli insegnamenti da impartire e purché non siano disponibili nell’ambito territoriale docenti abilitati in quelle classi di concorso”.
Praticamente, con questa novità, si va oltre la chiamata diretta: non solo con questa riforma si dà la possibilità ai presidi di attingere o giudicare (tra i neo-assunti e coloro che entrano nel girone “infernale” della mobilità) da albi territoriali non graduati; ora scopriamo che, quando non ci sono più candidati, potranno mettere in cattedra pure dei laureati che non hanno mai insegnato e svolto un corso abilitante. Largo ai giovani, dunque? Neanche per sogno.
“Perché i giovani laureati – osserva Marcello Pacifico, presidente Anief, segretario organizzativo Confedir e confederale Cisal – sono gli stessi a cui viene preclusa la possibilità di entrare dalla porta principale del reclutamento: il concorso a cattedra, quello che verrà bandito entro il prossimo 1° dicembre, sempre come previsto dalla riforma, secondo il quale i non abilitati dovranno diventare trentenni o quarantenni prima di poter solo aspirare ad un posto di insegnante nella scuola. Verrebbe da chiedersi qual è il filo conduttore, se c’è, che ha portato a certe scelte così incoerenti. Perché, per dirla tutta, svincolando le abilitazioni dalle classi di concorso si produrrà un bel danno non solo ai candidati docenti, ma anche alla didattica: gli alunni saranno loro le prime vittime di questo pasticcio. E, nello stesso momento, si metteranno molti docenti in condizioni di disagio, perché saranno obbligati ad insegnare materie che conoscono non certo a fondo”.
“Il paradosso – continua Pacifico – è che dopo l’anno di prova, i neo assunti, per esempio, dovranno essere anche giudicati. E sapete da chi? Da una commissione tutt’altro che all’altezza, introdotta con il comma 129 della riforma. Perché sarà composta da un dirigente, tre docenti interni, di cui due scelti dal collegio dei docenti e uno dal consiglio di istituto, un componente esterno, uno o due genitori e, alle superiori, anche da studenti quattordicenni: peccato che tutti, ad iniziare dal dirigente, non certo per colpa loro, ma sicuramente di chi li metterà a svolgere questo compito, conoscano la disciplina ancora meno di quanto la conosce lo stesso docente da valutare (a meno che siano casualmente laureati in quella materia). Così, nella grande maggioranza dei casi, produrranno una valutazione grossolana, che nemmeno lontanamente si avvicina all’oggettività. Il rischio, più che concreto, è che si valuterà il docente di turno sulla base di fattori generici; senza entrare nel merito di quanto sia riuscito effettivamente a superare l’improbo compito di insegnare una disciplina che – conclude il sindacalista – non doveva e poteva insegnare”.