“Com’è possibile che a distanza di oltre un anno dall’introduzione della fatturazione elettronica la nostra Pubblica amministrazione non conosca l’ammontare complessivo dei debiti commerciali che ha accumulato nei confronti dei propri fornitori, visto che questo sistema dovrebbe permettere di controllare che tutti gli enti centrali e periferici paghino in 30 o massimo 60 giorni così come previsto dalla Direttiva Ue ?”
A chiederselo è il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA, Paolo Zabeo, che per conto dell’Associazione segue da anni la delicata vicenda dei mancati pagamenti da parte della Pa.
“Il dato di partenza è il seguente – prosegue Zabeo – oggi lo Stato non ha una mappatura certa dei debiti a cui deve far fronte, nonostante sia obbligatorio per legge comunicare attraverso la piattaforma elettronica lo stock maturato alla fine di ogni anno entro il 30 aprile successivo. Inoltre, con l’introduzione della fatturazione elettronica, resa obbligatoria a partire dal 31 marzo 2015 a tutte le aziende che hanno rapporti commerciali con la Pa, il Governo si era posto l’obbiettivo di rendere trasparente e immediato il rapporto tra le parti, ma, soprattutto, di fornire un riscontro immediato dell’impegno economico preso dallo Stato nei confronti dei propri creditori. Dopo più di un anno, invece, non c’è ancora un dato ufficiale; l’indagine campionaria eseguita dalla Banca d’Italia, indica che la Pa, al 31 dicembre 2015, sarebbe debitrice nei confronti dei propri fornitori per 65 miliardi di euro, 35 dei quali riconducibili a fatture emesse da moltissimo tempo. Una stima, tengono comunque a precisare i ricercatori di via Nazionale, caratterizzata da un grado di incertezza non trascurabile e, pertanto, poco attendibile”.
Alla luce di tutto ciò, alla CGIA sorge un dubbio: “Che attendibilità può avere un debitore, in questo caso lo Stato, se non conosce nemmeno l’ammontare complessivo delle risorse che deve ai propri creditori, nonostante possa monitorare lo stato di avanzamento dei pagamenti con la piattaforma informatica ?”
Oltre a segnalarci che al 31 dicembre 2015 il nostro debito complessivo era di 65 miliardi di euro, i dati emersi dall’indagine campionaria della Banca d’Italia sottolineano che l’anno scorso i tempi medi di pagamento della nostra Pa sono stati pari a 115 giorni, una soglia molto superiore rispetto ai termini previsti dalla Direttiva Ue che impone tempi compresi tra 30 e 60 giorni.
E a ricordarci che la situazione rimane ancora molto delicata è la mancata chiusura della procedura di infrazione dell’Ue scattata contro il nostro Paese nel giugno del 2014 per la violazione della direttiva europea sui ritardi di pagamento entrata in vigore nel 2013.
“Oltre a non pagare entro i tempi stabiliti dalla direttiva Ue – segnala il segretario della CGIA Renato Mason – Bruxelles ci ha comminato questa infrazione anche perché molti enti utilizzavano dei contratti dove venivano applicate delle cifre dovute agli interessi significativamente inferiori al limite imposto dalla direttiva, cioè il tasso di riferimento Bce aumentato dell’8 per cento. In altri casi ancora, c’era il malcostume, spesso ricorrente ancora adesso, di posticipare i report d’avanzamento dei lavori e di conseguenza ritardare i pagamenti.
E sebbene gli ultimi 3 Esecutivi che si sono succeduti in questi ultimi anni abbiano messo a disposizione più di 56 miliardi di euro per abbassare lo stock, lo smaltimento dei debiti nel nostro Paese rimane ancora un problema irrisolto.”
Nell’Ue, infatti, nessun altro paese conta un ammontare complessivo del debito per acquisti di beni e servizi (cioè la quota di debito riferibile solo alla parte corrente) come il nostro. I dati Eurostat del 2015, anche questi provisori e frutto di stime, indicano che in Italia i debiti commerciali della Pa riconducibili alla parte corrente (non include la quota in conto capitale) ammontano a 49 miliardi di euro, in Germania a 35,1, in Francia a 26,4, in Spagna 14,6 e in Olanda a 5,4. “A fronte di 154,5 miliardi di debiti complessivi di parte corrente in capo a tutte le Pa dei paesi dell’area dell’euro – conclude Mason – la quota italiana incide per circa un terzo. Un primato che non ci fa onore e ci relega in coda alla graduatoria per la Pa peggiore pagatrice d’Europa”.