ISTRUZIONE – Abbandoni scolastici in aumento, boom nei licei

Invece di pavoneggiarsi per gli ultimi dati Ocse sull’inclusione tra i banchi di scuola, Governo e amministrazione scolastica centrale farebbero bene a chiedersi i motivi per cui cresce il fenomeno degli abbandoni scolastici, di cui dà notizia oggi il quotidiano La Repubblica che è andato ed estrapolare i dati forniti dal Miur sui rapporti di autovalutazione presentati dalle scuole. Si tratta di una tendenza tutt’altro che superata, anzi addirittura viene definita “in aumento”. Compromettendo ulteriormente, quindi, l’avvicinamento al 10 per cento massimo di dispersione scolastica indicato più di tre lustri fa a Lisbona.

I dati, sempre poco diffusi, sono gli ultimi disponibili e si riferiscono a due anni scolastici consecutivi: il 2013/2014 e il 2014/2015. E fotografano una situazione preoccupante, come da tradizione italiana: già alle scuole medie, sono circa 7mila e 700 i ragazzi che si sottraggono agli studi ancora prima dei 14 anni: 0,3 per cento in prima media,0,5 per cento in seconda e 0,6 per cento in terza media. Ci sono delle aree dove l’allarme è rosso: “in alcune realtà del Sud Italia il fenomeno assume dimensioni macroscopiche da emergenza educativa. Come alla scuola media dell’istituto comprensivo Primo Levi/Ilaria Alpi di Napoli, nel popolare quartiere di Scampia, dove in prima classe le interruzioni di frequenza toccano addirittura quota 7,4 per cento”. Ma c’è anche un istituto comprensivo della periferia di Roma, sulla Tiburtina, dove a lasciare i banchi sono il 6,2 per cento.

Alle superiori, la situazione peggiora: non solo nei tecnici e professionali, ma, questa è la novità, anche nei licei, dove si registra una “rapida crescita” del fenomeno; in un solo anno, di ben 12 punti e mezzo, visto che “nel 2013/2014 interrompevano gli studi circa 9.150 ragazzi e ragazze”, mentre “l’anno successivo diventano oltre 10mila e 300”. Un liceo, quindi, “che raccoglie sempre più iscritti, parecchi dei quali”, però “con tutta probabilità hanno sbagliato indirizzo scolastico”. Complessivamente, a livello nazionale sono 45mila i ragazzi delle superiori che in un anno decidono di non andare più a scuola. Il Miur cosa sta facendo? Nei giorni scorsi la Ministra ha detto che il tema della dispersione è fra le priorità del piano in dieci azioni da 840 milioni: di questi 180 milioni riguardano, appunto, la lotta agli abbandoni, attraverso il potenziamento delle competenze in lingua madre, lingue straniere, scienze, matematica grazie a modalità didattiche innovative.

Per il sindacato, è chiaro che il piano predisposto dal Miur va apprezzato negli intenti, ma è largamente insufficiente per fronteggiare la situazione. Che, come ha illustrato la stampa nazionale, in determinate zone del Paese, come al Meridione, essendo di proporzioni straordinarie, non può essere trattata con modalità ordinarie. “È sempre più impellente la necessità – dice Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – di cambiare le modalità di assegnazione degli organici, che vanno attuati non più in base al solo dato degli alunni iscritti, ma anche e soprattutto tenendo conto delle peculiarità del territorio, dei flussi migratori, delle aree depresse economicamente, del tasso di dispersione scolastica e di insuccesso formativo, dei quartieri oggettivamente a rischio e delle zone difficilmente raggiungibili. In questi contesti, pensare di svolgere attività didattico-formativa con classi composte da 30 alunni, perché questi sono i numeri veri dei primi anni di corso nei nostri istituti, addirittura anche 25 in presenza di ragazzi disabili, costituisce un obiettivo perso prima ancora di cominciare”.

“La mancanza di rapporto diretto tra docente e allievo – continua il sindacalista Anief-Cisal – diventa l’elemento decisivo a sfavore di quest’ultimo. Il quale, di fronte ai primi insuccessi, decide di lasciare la scuola. Se, invece, i docenti avessero la possibilità di operare con gruppi-classi normali, al massimo di 15 frequentanti, allora il discorso cambierebbe. Ancora di più se lo Stato desse la possibilità, sempre in queste realtà difficili, di far operare in copresenza più insegnanti, in modo da creare dei sottogruppi di alunni suddivisi per livelli. È chiaro che tutto ciò non è realizzabile nelle classi pollaio che ci ha regalato la riforma Tremonti-Gelmini e che gli altri Governi hanno colpevolmente confermato”.

L’Anief aveva espresso queste indicazioni solo qualche giorno fa, quando l’Ocse ci ha ricordato che le nostre scuole sono inclusive, senza soffermarsi su dispersione, sostegno e post-diploma. Ricordando che sono davvero pochi i 25mila posti richiesti dal ministro Fedeli al Mef per essere trasferiti dall’organico di fatto a quello di diritto. E rappresentano solo un decimo del fabbisogno gli 8mila-10mila posti che a via XX Settembre vorrebbero concedere per il prossimo anno scolastico.

A tali condizioni, senza assunzioni di docenti su tutti i quasi 100mila posti vacanti e disponibili, da confermare attraverso un monitoraggio su tutti gli istituti sparsi per il territorio, rimarranno parole al vento anche quelle pronunciate solo qualche giorno fa anche dal sottosegretario al ministero dell’Istruzione, Angela d’Onghia, secondo la quale “l’Italia sta facendo passi in avanti ma sicuramente bisogna farne molti di più”, perché “ogni ragazzo che perdiamo è una perdita per tutto il paese” con “regioni in cui siamo intorno al 10%, che è la media che vorremmo raggiungere nel 2020” ma “ci sono altre regioni che sono invece più indietro”.

“Per vincere l’abbandono precoce dei banchi servono una serie di azioni incrociate: all’introduzione di organici maggiorati nelle aree a rischio e alle immissioni in ruolo sui posti liberi, 52mila solo nel sostegno, va aggiunto l’anticipo di un anno dell’obbligo scolastico, a cinque anni anziché sei: sono soluzioni che abbiamo illustrato poche settimane fa anche in Parlamento, durante le audizioni delle otto leggi delega della Buona Scuola, senza le quali il fenomeno è destinato purtroppo a rimanere intatto. Se non a peggiorare. È probabile che la situazione di stallo sia legata al fatto che l’Italia rimane l’unico Paese Ocse che dal 1995 non ha incrementato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria, a dispetto di un aumento in media del 62% degli altri Paesi dell’area. Allora, lo si dica apertamente: la formazione dei nostri giovani, rimane subordinata ai bilanci dello Stato. Almeno, così, ci metteremmo l’anima in pace”, conclude Pacifico.